Il lavoro psicogiuridico con le persone straniere. Note dal campo
Autori: Pietro Alfano* - Gandolfa Cascio* - Giulia Grillo** - Vincenzo Nuzzo**

* con il contributo del Gruppo di Lavoro “Etnopsicologia e psicologia delle migrazioni”
** con il contributo del Gruppo di Lavoro “Psicologia forense

Premessa

Nel corso del 2022 i Gruppi di Lavoro in “Etnopsicologia e psicologia delle migrazioni” e “Psicologia forense” hanno dato avvio ad una iniziativa comune volta a promuovere una riflessione interna ed esterna alla comunità professionale degli psicologi siciliani con riferimento ai temi di proprio interesse ed alle questioni rilevanti nel lavoro in setting giuridico con l’utenza non italiana.

I nodi problematici individuati sono relativi a numerosi aspetti del lavoro di consulenza su mandato dell’Autorità Giudiziaria quando ad essere coinvolti siano singoli e/o famiglie di lingua e cultura differente da quella italiana.

Alcune di queste problematicità riguardano aspetti di cornice che hanno un’influenza solo generale nell’agire professionale, sollevando delle questioni di carattere politico o teorico-epistemologico che sarebbe necessario affrontare in sedi più appropriate e coinvolgendo stakeholder e interlocutori differenti rispetto alla comunità professionale; altre, quelle cui verrà dedicato questo testo, concernono più specificamente il concreto agire professionale dello psicologo e la metodologia dell’intervento nel momento in cui riveste il ruolo di consulente tecnico, perito o ausiliario di Polizia Giudiziaria.

Ad essere convocati, oltre a considerazioni di carattere teorico-epistemologico proprie del pensiero psicologico [1], anche i contributi di diverse altre discipline, dall’antropologia alla sociologia, dalle scienze giuridiche a quelle politiche.

Introduzione

Gli attuali movimenti migratori hanno ripercussioni sociali, politiche e psicologiche individuali e collettive molto complesse e pongono questioni sul nostro rapporto con il mondo culturale che ci circonda. Si tratta di questioni attuali ed importanti non solo nel lavoro con i migranti, ma anche nella vita quotidiana delle nostre società (von Overbeck Ottino, 2022): come possiamo definire il posto che la cultura di appartenenza occupa nel funzionamento psichico? Come pensare il ruolo della lingua madre e del quadro culturale di riferimento nella relazione con l’alterità culturale?

Tali interrogativi rappresentano le condizioni per cui Freud (1989) definiva il lavoro culturale (Kulturarbeit) come costruzione del significato di ciò che si è vissuto e Winnicott (2019) ripensava l’esperienza culturale come una formazione psichica intermedia che, se condivisa tra individui e gruppi, può dar luogo ad un ambiente culturale sufficientemente buono che offre un contenitore, un involucro psichico, per un gruppo etnico e le famiglie di quel gruppo.

Come dunque immaginare la cultura?

Camilleri e Visonneau (1996) hanno definito la cultura come l’insieme di significati che i membri di un gruppo attribuiscono agli stimoli che provengono dal proprio ambiente e da loro stessi. Tra gli aspetti che costituiscono una cultura, gli autori evidenziano gli stati mentali e le operazioni psichiche, i tipi di comportamento, i diversi saper fare e ciò che questi comportano, la varietà di istituzioni e le modalità di organizzazione della vita collettiva.

La cultura è, quindi, l’insieme di nozioni codificate da un gruppo di persone che permettono di affrontare, risolvere e leggere in modo condiviso le situazioni che si presentano. Per M.R. Moro (1994) “un sistema culturale è costituito da una lingua, da un sistema di parentela, da un corpus di tecniche e di modi di fare (l’acconciatura, la cucina, le arti, le tecniche di cura, le tecniche di maternage…)”.

Per T. Nathan (1988), autore cardine dell’Etnopsicologia, la cultura è “il sistema che contribuisce alla nostra costruzione del mondo e non può esistere respiro psichico, senza filtro culturale che ordini, governi e fornisca i principali strumenti di interazione con la realtà”.

La “realtà”, o meglio il modo in cui ci rappresentiamo la realtà, si costruisce in base ai modelli imposti o proposti dalla cultura. Le diverse culture plasmano gli individui e il loro modo di essere attraverso usanze, regole esplicite e implicite.

Non si può non richiamare il lavoro di G. Devereux (1980), secondo cui l’influenza delle rappresentazioni culturali sul funzionamento psichico inscrive l’esperienza singolare in una certa visione del mondo condivisa da tutti i membri di un gruppo culturale. Un’esperienza, apparentemente personale, presenta così aspetti familiari per chi appartiene allo stesso gruppo culturale e diventa così condivisibile.

Devereux (1980), nel dettaglio, richiama due principi fondamentali. Il primo è quello dell’universalità psichica, secondo il quale ciò che definisce l’essere umano è il suo funzionamento psichico, che è uguale per tutti. Da questo deriva la necessità di assegnare la stessa rilevanza a tutti gli esseri umani e alle loro produzioni culturali e psichiche, al loro modo di pensare e di vivere, anche quando sono molto diversi. Il secondo principio è che ogni essere umano tende all’universale attraverso la sua cultura di appartenenza: un codice inscritto nella lingua, nelle categorie a disposizione che permettono di leggere il mondo in un certo modo, nel corpo e nel modo di percepire e di sentire, attraverso precisi sistemi di interpretazione e di costruzione del senso.

È in questo senso che R. Kaës (1998) sostiene l’idea di una terza differenza, quella della cultura, che ci pone di fronte alla diversità delle rappresentazioni e identificazioni, dei sistemi di simbolizzazione, delle alleanze psichiche, narcisistiche e difensive necessarie per la vita in comune.

Questo può condurre, nel confronto con l’alterità, all’esperienza del perturbante descritta da S. Freud (1919), ovvero ad un insieme di reazioni difensive e inconsce suscitate dall’incontro con l’altro culturalmente diverso.

Sulla base di tali elementi la stessa questione della scelta della lingua va quindi ben oltre la questione della semplice comunicazione poiché il ricorso alla lingua madre costituisce un passaggio necessario per l’elaborazione psichica. Il linguaggio, in questo senso, è un vero e proprio “dispositivo terapeutico” (Devereux, 1980). La possibilità di parlare la propria lingua madre è un forte segno di riconoscimento dell’origine culturale dell’altro. Inoltre, il linguaggio permette o meno di accedere a dimensioni storiche o culturali del sé, ad antiche appartenenze, a parti dello spazio segreto del sé. La lingua ha un valore identitario.

Queste sono, a nostro avviso, le premesse alla base dei modelli di lettura della realtà di professionisti che non abbiano una specifica competenza transculturale. Accanto a questi aspetti, del resto, ci sembra importante rilevare ulteriori elementi di rilievo quando si lavora in ambito psicogiuridico.

Per esempio, è possibile ricordare che in contesti socio-geografici diversi da quello italiano e, più in generale, europeo, l’individuazione di alcune fattispecie di reato può presentare delle importanti differenze: in contesti non occidentali il concetto di violenza può essere diversamente definito, così come quello di educazione, obblighi coniugali, genitoriali o filiali, incuria, discuria, ecc. Questo dato di evidenza comporta la necessità di approcciare le specifiche situazioni valutative problematizzando le proprie premesse personali e socio-relazionali così da muovere da un vertice osservativo non semplificatorio e riduzionistico che, diversamente, potrebbe comportare un chiaro impatto sulla qualità metodologica del proprio intervento oltre ad avere conseguenze potenzialmente importanti su alcuni aspetti di vita e benessere dell’utenza coinvolta.

Un ulteriore esempio, con implicazioni politiche evidenti, riguarda le situazioni in cui il riconoscimento di uno status di protezione capace di garantire il permesso di soggiorno in Italia comporti spesso, soprattutto laddove ci sia un ricorso avverso le decisioni della Commissione Territoriale, una valutazione di vicende biografiche attraverso un contributo professionale dello psicologo. È il caso, capitato ad alcuni dei colleghi di chi scrive, in cui si chieda al professionista di pronunciarsi sull’orientamento di genere di una persona, attestandone l’omosessualità. Un orientamento di genere di tipo omosessuale, infatti, può essere associato al riconoscimento di una forma di protezione con la concessione di un permesso di soggiorno laddove la persona, per una diversa definizione di cosa costituisce un reato nelle relazioni interpersonali e di amore, possa subire persecuzioni o essere soggetto a pene ritenute illegittime in contesti occidentali (la reclusione o la pena di morte in alcuni paesi stranieri). Riguardo a simili richieste, del resto, oltre a interrogarsi sulle questioni politiche che riguardano la libertà di scelta e movimento delle persone, molto diverse per chi è nato in paesi occidentali e chi proviene da continenti quali l’Africa, il professionista psicologo sarebbe anche tenuto a problematizzare la richiesta dell’Autorità Giudiziaria, avviando un opportuno processo di analisi della domanda.

Gli esempi appena menzionati costituiscono una ristretta gamma di questioni di carattere generale che riguardano l’agire dello psicologo in setting giuridico e con utenza straniera o migrante. Nonostante gli esempi ricordati siano tutto sommato limitati, comunque, sono in grado di segnalare la complessità delle problematiche cui ci si può trovare confrontati, con la conseguente necessità di rispondere al proprio mandato istituzionale in maniera articolata e consapevole, probabilmente introducendo delle variazioni di setting e di tecnica.

A partire da questa introduzione, l’articolo propone adesso il commento di alcuni casi che chi scrive ha incontrato nel corso del proprio agire professionale quotidiano, provando a problematizzare alcuni aspetti ritenuti importanti con riferimento a macro-tematiche di rilievo: il contatto tra culture e le modalità di lavorare i fenomeni che emergono dinamicamente dal confronto tra diversità spesso estreme; la questione della mediazione linguistico-culturale; il potenziale rischio iatrogeno. Alcune considerazioni conclusive, infine, sono relative proprio alla questione dell’analisi della domanda e alle concrete possibilità di attivare un processo di riflessione nei confronti dell’Autorità Giudiziaria sulla pertinenza di alcuni quesiti posti allo psicologo.

Scenario 1

Verranno di seguito utilizzati due casi [2] per mettere in luce quanto la cultura rappresenti uno degli elementi più rilevanti nell’approccio al soggetto che incontriamo in quanto vittima vulnerabile.

Dato che non tutti i lettori sono avvezzi a tali argomenti, è necessaria preliminarmente una breve presentazione che faccia da cornice teorica e tecnica a questo scritto in modo che tutti possano comprendere gli scopi e le difficoltà del compito che si è chiamati a svolgere.

Il Pubblico Ministero (da ora PM), ovvero il soggetto giuridico che conduce le indagini, accusa gli imputati e ne chiede la condanna di fronte ai giudici, si avvale delle forze dell’ordine per compiere le sue indagini e conoscere la verità (o tentare di farlo). Quando le forze dell’ordine operano per conto di un PM, che afferiscano da Polizia di Stato, Arma dei Carabinieri, Guardia di Finanza o altri corpi di pubblica sicurezza, assumono il ruolo di Polizia Giudiziaria (da ora PG). Il loro compito diventa assolvere ai mandati che il PM conferisce loro tramite apposita richiesta (la delega alle indagini) sentendo direttamente, tra le altre cose, i soggetti implicati nella vicenda sulla quale si indaga, comprese le presunte vittime, ovvero le persone offese (da ora PO.).

Il nostro compito professionale di psicologi si innesta la maggior parte delle volte in questa fase, ovvero quella delle indagini. Il motivo della richiesta di collaborazione con uno psicologo forense nasce da tre ordini di motivi.

Il primo motivo è che abbiamo il dovere di impiegare tutte le nostre competenze per ridurre al minimo il dolore e non cagionare ulteriori sofferenze (o cagionarne il meno possibile) a chi è già ultimo fra gli ultimi. Perché in questo lavoro si tratta spesso di incontrare chi abita il fondo del barile, chi non è nessuno, figlio di nessuno, padre di nessuno. Ci si imbatte in chi non ha nulla e vive nella beatitudine della miseria delle nostre periferie, che non sono solo margini geografici della città ma sono anche e soprattutto i suoi interstizi più nascosti e non presidiati dalla comunità, i suoi vicoli più bui; sono quei buchi della democrazia nei quali si cade e non si esce, spesso per generazioni, nei quali la forza di gravità spinge verso la miseria e verso il crimine con una forza tripla rispetto che al resto dei luoghi della nostra comunità. Sono gorghi pieni d’acqua intorbidita dai nostri rifiuti, dalle nostre scissioni, dalla nostra incapacità di farcene carico. E noi rischiamo di essere letteralmente pioggia sul bagnato se non sappiamo operare con professionalità e con amore.

Il secondo motivo è di carattere puramente tecnico ed attiene alla necessità che la memoria del testimone sia preservata e possa confluire in una testimonianza che sia il più possibile libera e priva di condizionamenti dati dalle modalità di inchiesta. Perché come tutti sappiamo, l’osservatore modifica l’oggetto di osservazione in modo radicale. Ma se modifichiamo gli oggetti, allora figuriamoci quali modifiche un’intervista goffa e ingenua può provocare ad un soggetto ed al suo racconto. Inoltre, ormai concordiamo sulla natura processuale della memoria, che non è una mera funzione rievocativa ma un processo attivo ed elaborativo, nel quale intervengono numerosi fattori tra la fonte ed il destinatario dell’informazione. Per questo lo psicologo, chiamato ad ascoltare i soggetti vulnerabili per conto del PM (o di qualsiasi altra Autorità Giudiziaria), dovrebbe applicare modelli di intervista adatti al soggetto ed essere allenato ad adattare tali modelli alla situazione, allo scopo e alle caratteristiche del soggetto che si incontra.

Il terzo motivo appare legato ai cosiddetti fattori di influenza interni o esterni, ovvero quell’insieme di elementi affettivi (interni e strutturali) e culturali (esterni e sovrastrutturali) capaci di imprimere modifiche, di inibire o di sovra-eccitare il soggetto che ascoltiamo. Nella nostra pratica professionale si è potuto osservare ad esempio che l’ansia da separazione nei bambini o la paura della perdita del proprio status o dei propri legami sentimentali (specie se caratterizzati da quote rilevanti di dipendenza) sono capaci di modificare in modo disastroso gli approcci di un soggetto all’intervista. Inoltre, spesso, l’intraducibilità delle rispettive culture di appartenenza può avere un’influenza enorme e disastrosa sulla comprensione dei fenomeni umani ai quali l’Autorità Giudiziaria si accosta tramite il nostro contributo. Pensiamo ad esempio alle culture popolari del meridione, all’animismo africano, alla magia nera ed allo spiritismo (presenti anche in Sicilia ancora oggi in forme quasi del tutto cristianizzate). Pensiamo alle convinzioni circa i ruoli del maschio e della femmina nella cosiddetta famiglia tradizionale, o ai diversissimi approcci coi quali si ritiene di dover crescere la prole: non sono forse queste delle differenze rilevanti delle quali si dovrebbe tenere conto nell’approccio all’altro?

Se l’operazione dell’ascolto della persona vulnerabile è già un compito arduo quando si incontrano soggetti considerati (spesso a torto) culturalmente a noi affini, cosa succede se anche la lingua e la cultura di riferimento cambiano? Come possiamo operare correttamente?

Come vedremo nei casi che seguono, la mediazione culturale e linguistica, se mancante o inadatta, rende impossibile il compito già molto arduo di comprendere l’altro e comunicare poi quanto compreso ad un soggetto esterno ed estraneo alla vicenda (l’Autorità Giudiziaria), che avrà il compito di tradurre quanto a sua volta da noi appreso in categorie intellegibili dal nostro ordinamento ed applicare la legge. Vedremo inoltre come la mancanza di una specifica formazione negli operatori della P.G. può comportare enormi difficoltà di comprensione e comportare un rilevante disagio nella P.O.

Caso 1

Mi trovo in un luogo protetto, di quelli che ormai sono quasi ovunque in città. Sto lavorando con persone delle quali mi fido molto, che so essere ottimi operatori ed ottime persone. Solitamente questo mi fa sentire meno solo e mi rassicura sul fatto che se la mia testa molla, ve n’è almeno un’altra pronta a subentrare e lasciare che io mi riconcentri. La signora bengalese ha un’età indefinita e per conoscerla sono costretto a guardare nel fascicolo. Piange, non fa che piangere e quando alza lo sguardo me lo punta. La sua fronte forma righe verticali proprio sopra il naso. Parla solo Bangla, non una parola di italiano. Non lo parla ma un po’ lo capisce, o almeno questa è la mia impressione perché quando pongo le domande talvolta quasi vorrebbe interrompermi per rispondere in bengalese. Con noi c’è un mediatore. È un ragazzo dall’età indefinita, anche lui. Penso tra me e me che avrà tra i venti ed i trent’anni. È evidente che non ha idea di cosa fare e che è la prima volta che si presta ad un simile compito. È stato infatti letteralmente raccattato dalla comunità bengalese locale attraverso contatti di contatti. Anche se non sembra avere mai visto la signora, non posso escludere che conosca l’indagato.

La donna racconta delle presunte violenze e umiliazioni subite dal marito, che è un personaggio noto alla comunità bengalese residente in città e gestisce un’attività ben radicata nel territorio e frequentata anche da italiani.

Il mediatore parla un italiano molto stentato e non ha chiaro fino in fondo il suo compito. Nonostante gli abbia dato chiarissime istruzioni su come procedere il ragazzo ascolta la donna piangere e parlare molto a lungo, le fa domande ed ottiene risposte e solo dopo mi riferisce quanto appreso. Entrambi si interrompono a vicenda. Le mie domande, brevissime e molto precise, vengono poste da lui immediatamente dopo che le ho formulate, ma ho il sospetto che non arrivino a destinazione uguali a come sono partite: nonostante le ovvie differenze fra la mia e la sua lingua, le sue traduzioni siano infinitamente più lunghe delle mie domande, cosa che mi porta a pensare che siano stati inseriti altri elementi di cui non conosco la natura.

La signora piange a dirotto ed io sono sempre più sullo sfondo. La P.G. mi guarda come a dire: “E ora sto verbale come lo scriviamo maledetto tu?” e io mi sento sempre più solo. Siamo tutti soli in quell’ufficio. Ognuno portatore di istanze ed interessi diversi. Sembra quel format di barzelletta che di solito comincia così: “allora ci sono un francese, un inglese, un tedesco ed un italiano…”.

Il verbale che sarà redatto a fine giornata è sostanzialmente un Golem, frutto dell’opera di digestione delle informazioni prese da un traduttore improvvisato. Non perché contenga menzogne, sia ben chiaro. Ma perché è il frutto di rielaborazioni ed influenze interne ed esterne che non siamo stati in grado di controllare. E ora la palla passerà ad altri e buonanotte al secchio, noi saremo già lontani quando ciò che abbiamo prodotto avrà effetto. Un effetto che non conosceremo, dal quale ci sentiremo del tutto estranei e del quale ci dimenticheremo. O forse no.

Caso 2

È quasi buio ormai. Siamo qui già da due ore e fuori piove a catinelle e non si ferma dal mattino. Non stiamo cavando un ragno dal buco e sento di nuovo quella terribile sensazione, la solitudine.

L’operatore di P.G. è una donna giovane e fa parte di un’aliquota specializzata in reati legati alle migrazioni. Tale specializzazione però deve essere solo sul piano investigativo, penso, perché sul lato umano (che è gran parte delle competenze che spendiamo al contatto con l’altro) è davvero un disastro. L’interprete è una donna inglese, simpatica e disponibile, con lo stesso accento dei migliori telegiornali della BBC. Comprende perfettamente il Naija o Broken English, l’inglese parlato dai nigeriani, ma non riesce in alcun modo a togliersi quel forte accento british che fa un po’ casa reale. È molto competente come traduttrice perché l’ho incontrata spesso in udienza al GIP e anche a qualche convegno nel quale traduceva in simultanea. Qui però non è libera di impiegare tutta la sua professionalità perché è ridotta, come me, a strumento.

La P.G. è incalzante. È evidente che non le va di fare quello che sta facendo. Inoltre, appare quasi offesa della mia presenza. Al mio arrivo mi impartisce subito degli ordini e mi dice che io praticamente non sarò necessario, perché le domande le fa lei. Posso assistere ed intervenire “se la signora ne ha bisogno”. Ma intervenire come, tenendole la mano? Io ho imparato a tenermi la rabbia, ma confesso che mi piacerebbe farle passare due bruttissimi minuti. Ma so che né ho l’autorità per farlo, né ho voglia di vedere cosa succede se si litiga davvero e di cuore con le forze dell’ordine. Un po’ per mantenere l’educazione, un po’ per il rispetto dei ruoli (a quanto pare univoco) e un po’ per una sorta di fiducia che mi fa pensare che alla fine andrà bene penso che dovrò lasciarla fare. E mi sbaglio. La P.G. è sempre più ingombrante ed incalzante; quando pone le domande alza le sopracciglia e sulla sua fronte si formano rughe orizzontali che la farebbero apparire supponente e infastidita anche se ti chiedesse dove sta la toilette. Non le piace ciò che sta facendo, non le piace che il magistrato le abbia appioppato un inutile psicologo. “Questi non sanno neanche cosa sia lo psicologo. Questi sanno solo mentire” borbotta parlando degli africani come se non la sentissi. La traduttrice è completamente nelle sue mani. Viene interrotta di continuo anche mentre formula domande pacate: “Chiedile del marito! Chiedile se spacciava! Chiedile se lei si prostituiva! Non le credo! Non è possibile!”, come se non dovessimo dare per scontato che le persone in difficoltà, le persone più fragili e prive di difese, possono mentire. In questa situazione non servono né lo psicologo né il traduttore, perché i giochi sono già fatti. Nessuna mediazione, solo una traduzione, come se fossero le istruzioni di un elettrodomestico nelle quali manca la pagina in italiano. Qui non sembra esserci spazio per un incontro o scontro fra culture. C’è solo la solitudine, è solo burocrazia, verso cui soggetti che, nonostante siano gli ultimi degli ultimi, sono chiamati a rispondere. Sembra che non valga la pena di trovare strumenti di comprensione che portino ad un dialogo possibile.

L’operazione è quella di spingere un soggetto contro le maglie del nostro setaccio, forzandolo a passarvi attraverso anche se la sua forma appare inadatta, anche se questo ne determinerà ulteriore sofferenza. Mica possiamo guardare ad ognuno! Pasta e fagioli per tutti e chi si lamenta se ne torna al suo paese!

Scenario 2

Lo scenario presentato è stato scelto perché presenta molte delle criticità anticipate nella nostra introduzione con riferimento ad un’area che riteniamo particolarmente sensibile, quella della valutazione delle competenze genitoriali in contesto migratorio. Il caso, seppure ritoccato così da non rendere riconoscibili i protagonisti, è reale. Nell’esperienza di chi scrive, anzi, rappresenta una sorta di “variazione sul tema” di svariate altre situazioni accomunate da numerose analogie. Un primo elemento ricorrente è rappresentato dalla non comprensione circa la consensualità a processi di affido o adozione, con genitori che, in maniera verosimile, si sono detti d’accordo circa l’attivazione di simili misure ma non ne hanno ben compreso le implicazioni. Quando si trovano in un contesto valutativo o di supporto che li faciliti nella condivisione delle proprie premesse di senso, in effetti, questi stessi genitori condividono delle rappresentazioni di affido e di adozione che sono poco coerenti con quanto viene previsto dalla nostra normativa, ricalcando piuttosto alcune prassi diffuse nei paesi di origine. In Nigeria, paese di provenienza della madre coinvolta nel caso, e in altri diversi paesi dell’Africa sub-sahariana, per esempio, è diffusa una tipologia di affido consuetudinario (Diriwari, 2022) per cui affidare i bambini a membri della famiglia estesa o anche a persone che non abbiano un legame di sangue con loro è una usanza diffusa che può essere messa in atto per motivazioni differenti: per ragioni economiche, al fine di garantire al minore migliori prospettive di vita; per garantire un migliore accesso a possibilità di educazione e sviluppo; per favorire la crescita con altri bambini della famiglia allargata. È utile precisare che le Istituzioni quali l’Autorità Giudiziaria non sono mai coinvolte nell’affido tradizionale, il minore mantiene il cognome della famiglia e i rapporti con essa. In modo particolare, non si interrompe il legame con le figure genitoriali o con la famiglia allargata: gli scambi con i genitori e i fratelli biologici possono continuare con frequenza variabile e senza che sia esclusa la possibilità di riferirsi a persone diverse con lo stesso appellativo di “papà” e “mamma”. Si tratta di prassi comprensibili alla luce del fatto che nei contesti dell’Africa sub-sahariana il modello familiare diffuso è quello della famiglia estesa, con il bambino che non ha un legame esclusivo con i genitori e in genere non lo ricerca, in considerazione della diffusione di modelli abitativi che prevedono la coabitazione di più famiglie nucleari legate da parentela in una stessa casa ed in ragione di prassi di accudimento dei minori di tipo diffuso e che riconoscono un ruolo educativo alle co-madri, le diverse mogli del padre nei sistemi poligamici, e ad ogni membro della famiglia, compresi i “pari”, i fratelli o i cugini anche di poco più grandi. Sulla base di queste considerazioni, quindi, seppure sia ovvia per l’utente straniero la necessità di conoscere le leggi del paese di accoglienza, non si deve dare per scontata la condivisione delle stesse categorie di significato.

Precious è una giovane donna nigeriana di 28 anni. Arriva in un servizio pubblico su mandato dell’Autorità Giudiziaria che richiede a chi scrive una valutazione delle competenze genitoriali con riferimento al procedimento di adottabilità della figlia Blessing di 5 anni. Ormai da quasi tre anni, la bambina è stata data in affido a una famiglia italiana e il Tribunale per i Minorenni richiede una valutazione delle competenze genitoriali di Precious contestando lo stato di abbandono della minore. Trascorso il biennio di affidamento consensuale e dal momento del trasferimento in un comune distante circa 20 km da quello in cui risiedono la famiglia affidataria e la minore, infatti, Precious avrebbe cessato di cercarla e di occuparsi della bambina.

Il trasferimento di Precious presso il comune limitrofo è riconducibile all’inizio di una relazione con un coetaneo, padre da pochi mesi della sua secondogenita, la piccola Joy.

Il padre biologico di Blessing, invece, un uomo conosciuto nell’ambito del sistema di accoglienza, non si è mai voluto occupare della minore, non la ha riconosciuta e avrebbe chiesto insistentemente a Precious di abortire, richiesta ugualmente avanzata alla donna da parte della propria famiglia. Blessing, per questo, è stata fortemente voluta dalla madre contro il volere di tutti.

Il processo di affido della minore inizia in un momento di difficoltà di Precious. Quando la bambina ha soli due anni, infatti, appena ottenuto il riconoscimento di uno status di protezione da parte della madre, le due devono lasciare la struttura SPRAR (adesso SAI) che le ospita per trovarsi una sistemazione autonoma. Precious racconta di essere stata invitata a lasciare il centro con alle spalle un breve tirocinio e con in mano una cifra di denaro da investire per l’affitto di una casa e provvedere alle proprie necessità nel periodo di ricerca di un lavoro.

Nella speranza di essere facilitata nel trovare un’occupazione, Precious decide di trasferirsi nel vicino capoluogo di provincia. Qui vive tutte le difficoltà connesse alla ricerca di un lavoro compatibile con l’accudimento della bambina. In preda a difficoltà personali ed economiche, si rivolge a una nota realtà del terzo settore che la inserisce in un progetto di tirocinio retribuito e la mette in contatto con la Sig.ra Rossi, una volontaria. Questa si dice disponibile ad occuparsi della bambina quando la madre è impegnata nel tirocinio e, nel momento in cui Precious trova un lavoro che prevede dei turni di notte, viene formalizzato un affido alla Sig.ra Rossi e al marito. La bambina, in questo modo, trascorre con la madre solo i weekend, con gli affidatari che si occupano di lei il resto della settimana.

Dai decreti si legge che Precious avrebbe dato il proprio consenso all’affido, sebbene, quando si condivide con lei il contenuto dei documenti trasmessi dal Tribunale, la donna sostenga di non aver mai acconsentito a nulla di quanto le stiamo descrivendo. Appena realizza che le viene contestato lo stato di abbondono perché, soprattutto dal momento del suo trasferimento, non avrebbe ricercato attivamente un contatto con Blessing, Precious afferma di non aver compreso nulla di quanto stava succedendo nella vita sua e della figlia fino a quel momento.

Quando si esplicita che il Tribunale dovrà pronunciarsi sull’adottabilità della bambina, Precious scoppia in un pianto ininterrotto. La mediatrice nigeriana, presente a tutti i colloqui, la apostrofa in maniera molto decisa, dicendole che a questo punto ha veramente poco da piangere data la gravità della situazione, affermando che avrebbe dovuto essere più attenta con la figlia.

Ricostruendo il resto della storia di affido, si apprende che durante la gravidanza della secondogenita di Precious, quest’ultima ha ricercato meno frequentemente Blessing, confermando di essere stata meno presente nella vita della figlia. Racconta anche diversi episodi in cui la famiglia affidataria avrebbe cambiato comportamento rispetto al passato: non ci sarebbe stata disponibilità ad accompagnare la bambina a casa di Precious, non sarebbe stato possibile parlarle al telefono perché contattata in orari definiti poco consoni, sarebbero stati rifiutati dei piccoli regali comprati per la minore. Da oltre cinque mesi, quindi, non era più possibile incontrare Blessing, avendola sentita al telefono solo due volte.

Sebbene non venga disposto nulla in materia nei decreti dell’Autorità Giudiziaria, il Servizio Sociale competente per la minore richiede che la madre possa incontrare Precious solo in un contesto protetto. Non sono ben chiare le motivazioni di questa scelta. Interrogata in merito da chi scrive, l’assistente sociale di riferimento sottolinea che la decisione è stata concordata tra il sindaco dell‘Ente Locale per cui lavora, tutore legale della minore, il suo curatore speciale e gli altri assistenti sociali impegnati sul caso. Precisa a chi scrive, inoltre, che ritiene sicuramente che io comprenda come la famiglia affidataria teme di veder “naufragare il proprio progetto”, probabilmente alludendo al grosso investimento emotivo sull’affido di Blessing e all’attaccamento affettivo nei confronti della bambina.

Proporre un commento su questo scenario implica rilevare l’importanza di aver previsto una funzione di mediazione linguistico-culturale nel setting valutativo. La presenza della mediatrice, donna che condivide la provenienza dell’utente, ha permesso di far comprendere a Precious alcuni aspetti tecnico-giuridici del procedimento in atto. In un’ottica di consulenza a chi scrive, inoltre, la mediatrice ha assunto un ruolo ugualmente importante per diversi aspetti che hanno a che vedere con la possibilità di confrontarsi con chi è portatore di uno sguardo e di una storia diversa da quella del clinico. L’effetto che risulta dalla predisposizione di un dispositivo di valutazione che preveda la mediazione linguistico-culturale e che consideri il mediatore come un potenziale consulente portatore di specifiche competenze è sicuramente quello di aumentare il livello di complessità del sistema osservante, fondamentale per evitare di semplificare realtà spesso poco intellegibili e in cui lo psicologo deve assumersi un importante profilo di responsabilità. Ciò è tanto più vero quanto, seguendo le linee guida in materia (APA, 2017; Ordine Psicologi Regione Lombardia, 2019), la somministrazione di test e questionari in contesti multiculturali deve essere opportunamente problematizzata (Bevilacqua, 2012).

Nel caso in questione, del resto, è possibile anche intravedere una manovra poco opportuna della mediatrice che riprende e colpevolizza l’utente per essere stata troppo leggera con Blessing. Nigeriana, madre di 2 figli minorenni, attenzionata a suo tempo dal Tribunale per i Minorenni perché i propri figli venivano affidati a connazionali per diverse ore al giorno, di fronte alla disperazione di Precious la mediatrice risuona in maniera importante e diventa reattiva. Chi scrive si dice che probabilmente la mediatrice ha fatto con Precious quello che farebbe una madre nigeriana di fronte a una figlia poco sveglia. Nonostante la valutazione di scarsa opportunità del comportamento della mediatrice e a dispetto di quello che pensa chi scrive, quel verbalizzato ha l’effetto di scuotere Precious che cambia registro e comincia a chiedersi e chiedere come risolvere il problema. A conclusione dell’incontro, quando i temi del colloquio vengono ripresi con la mediatrice stessa ed è possibile interrogarsi insieme sull’opportunità di quel passaggio, emerge proprio il principale aspetto di risonanza con l’esperienza di Precious: la paura di poter perdere la potestà genitoriale sperimentata qualche anno prima. Non emerge solo questo elemento, poiché la mediatrice richiama anche alcuni aspetti di esperienza che accomunano molte persone immigrate: la paura di essere neri e trovarsi di fronte a un Tribunale; piccole ma importanti discriminazioni; atteggiamenti pregiudizievoli; comportamenti disorientanti dei servizi.

Si tratta di un aspetto importante della storia raccontata che, ancora una volta, pone l’attenzione sul ruolo del mediatore e sull’introduzione di una funzione di mediazione linguistico-culturale. Nel caso specifico, è indubbio il valore della presenza della mediatrice e il contributo messo a disposizione dell’utente e del processo. Paradossalmente una manovra potenzialmente inappropriata ha perfino un ruolo di catalizzatore per Precious. In fase di debriefing post colloquio, offre anche l’opportunità di ribadire una regola fondamentale del setting, quella di non esprimere giudizi. Inoltre, sempre in questa fase, consente di mettere a fuoco con la mediatrice alcune modalità di tipo automatico che possono essere attivate dalla risonanza con aspetti personali e sarebbe opportuno riconoscere e modulare maggiormente.

Proseguendo con l’analisi, il caso mette bene in evidenza quanto alcune procedure possano avere un effetto parcellizzante, soprattutto laddove ci sia un ampio margine per manovre discrezionali e quando le cosiddette titolarità o ownership (Braibanti, 2015) in gioco sono numerose. Ancora al momento in cui si scrive ci si chiede come sia possibile introdurre una misura quale è l’incontro protetto se non lo prescrive l’Autorità Giudiziaria. Lo stesso potrebbe dirsi di situazione ugualmente comuni: una comunità alloggio stabilisce che debbano essere interdetti o non favoriti i rapporti con familiari o figure della rete allargata di un minore o di un MSNA, spesso con l’avallo del tutore di turno e sulla scorta della necessità dell’operatore di salvaguardare un eventuale profilo di responsabilità personale; il superiore interesse del minore viene definito in termini teorici e su base ideologica ed etnocentrica; un minore non accompagnato non può avere accesso a un percorso psicologico perché il tutore è contrario o perché una struttura di accoglienza esercita una potente azione di filtro circa le modalità dei propri ospiti di prendersi cura di sé.

Un aspetto poco evidente nella situazione considerata, invece, rappresenta un elemento che rileva spesso nelle valutazioni delle competenze genitoriali: l’adozione di prassi di accudimento ed educazione poco compatibili con quelli del paese di accoglienza. In un certo senso non è stato nemmeno possibile osservare eventuali criticità relative a questo aspetto, poiché si potrebbe dire che il caso è stato chiuso ancora prima. Come si dirà, però, si tratta di un tema ugualmente importante e complesso, capace di porre diversi interrogativi sulle modalità più opportune di procedere in situazioni in cui si debba decidere su violenza, incuria o discuria. Non è raro, infatti, che operatori italiani a vario titolo in contatto con genitori e minori stranieri si attivino su questioni che dipendono strettamente dalle modalità di crescere i bambini a latitudini diverse dalla nostra. Una delle mediatrici con le quali chi scrive ha a lungo lavorato, nordafricana, ha condiviso un episodio della sua infanzia emblematico. La madre era stata minacciata dai vicini di casa di attivare i Servizi Sociali se non avesse smesso di fasciare la bambina, prassi peraltro diffusa in alcuni contesti del sud Italia almeno fino agli anni Sessanta. E così diventa inaccettabile e poco sano alimentare un neonato con riso premasticato, effettuare energici massaggi che dal punto di vista materno sono ritenuti fondamentali per la formazione di un apparato muscolo-scheletrico forte e robusto, lasciare i figli in custodia a un’altra donna, ecc.

Note conclusive

Partendo dall’ultimo scenario commentato, i casi in materia di affidamento extrafamiliare e le dichiarazioni dello stato di adottabilità ci confermano quanto il contesto migratorio incida sulle difficoltà che si incontrano all’interno del contesto giuridico a proposito della valutazione delle competenze genitoriali.

Solo per citare la Convenzione dei Diritti dell’infanzia e dell’adolescenza, l’art. 3 sancisce il principio del superiore interesse del minore.

Dispone quindi che in ogni provvedimento, legge, iniziativa pubblica o privata, l’interesse del bambino e dell’adolescente debba avere una considerazione preminente.

Nel suo scritto sulla valutazione delle competenze genitoriali in materia di famiglie migranti, J. Long (2015) sottolinea quanto i nodi problematici ruotino intorno due questioni fondamentali. “Il primo è la difficoltà di stabilire un punto di bilanciamento tra il dovere dello Stato di proteggere la vita familiare del genitore e del figlio (art. 8 Conv. Eur. dir. Uomo; artt. 2 e 30 comma 1 Cost.) e quindi di attivarsi a sostegno della genitorialità fragile (art. 31 Cost.) e il diritto del figlio minore a crescere in un ambiente adeguato (art. 30 comma 2 Cost.; art. 1 legge n. 184/1883). Il secondo nodo è la complessità della valutazione di modelli educativi altri rispetto a quelli propri, con i rischi da un lato di svalorizzare dei sistemi educativi propri della famiglia e della cultura di origine del minore straniero, dall’altro di riconoscere tout court l’esistenza di una scriminante culturale per condotte genitoriali che verrebbero invece censurate ove poste in essere da soggetti autoctoni”.

Certamente se è vero che si tratta difficoltà che potrebbero riscontrarsi in qualsiasi nucleo familiare, nel caso delle famiglie migranti non si può essere ciechi rispetto ad una genitorialità posta di fronte a maggiore fragilità per barriere linguistiche, culturali, per una mancanza di rete sociale, per difficoltà economiche.

La letteratura ha messo in evidenza come il periodo perinatale e i primi anni di vita costituiscano un momento di particolare vulnerabilità per lo sviluppo della relazione genitori-bambino, ciò è particolarmente vero nelle famiglie migranti, a causa della mancanza di coesione e compresenza del gruppo di appartenenza e della famiglia allargata. La competenza materna e la modalità di protezione e di cura si basa infatti in molti paesi d’origine sul sostegno delle co-madri e delle famiglie allargate cosi come delle conoscenze tradizionali tramandate e condivise nel contesto culturale di appartenenza. Il ruolo materno è dunque sostenuto sia materialmente che simbolicamente da un’esperienza di gruppo. Una cultura di accoglienza che nega tali fattori rende più fragili le donne e le famiglie e faticoso e difficile lo svolgimento dei compiti genitoriali.

La valutazione diventa ancora più complessa se ci soffermiamo sulla difficoltà di stabilire un “confine tra normalità educativa differenziata ed una non idoneità genitoriale. […] L’esame della giurisprudenza consente di individuare gli errori diagnostici in situazioni transculturali più frequenti, cioè i casi di comportamenti genitoriali culturalmente orientati che più frequentemente sono oggetto di travisamento da parte degli operatori impegnati nella valutazione delle competenze genitoriali. Essi concernono l’interpretazione tout court della delega dei compiti genitoriali dai genitori a terzi come inammissibile rinuncia al ruolo di genitore, la censura sic et simpliciter del genitore che abbia coinvolto il figlio minore in attività lavorativa o mendica, profili educativi autoritari, modelli di accudimento eccentrici rispetto alla cultura del paese di accoglienza” (Long, 2015).

Come orientare allora la nostra valutazione delle competenze genitoriali quando possiamo trovarci di fronte la necessità di fare coincidere il concetto di idoneità genitoriale con pratiche culturalmente orientate estranee ad una cultura autoctona? E ancora, quanto incide la tendenza a medicalizzare e leggere con la lente della patologia ciò che può anche essere frutto di trauma a fronte di vicende migratorie o di un background culturale che fa parte di una ben definita identità etnica?

Interrogativi questi, che pongono la necessità di affrontare il tema della valutazione delle competenze genitoriali partendo da un approccio differente, che da un lato consideri tutte le possibili variabili che entrano in gioco in questi casi e dall’altro non ci faccia correre il rischio di leggere i dati secondo un’ottica “giustificazionista” che nell’attribuire rilevanza alle variabili culturali potrebbe tradursi in un “pregiudizio” tra minori stranieri e minori autoctoni.

La valutazione allora dovrebbe forse partire da un punto zero, che non preveda un riadattamento della “nostra” metodologia alle situazioni riscontrate in sede di CTU, per cui ad esempio la somministrazione o meno di Test psicodiagnostici o la richiesta di un mediatore culturale all’interno delle operazioni peritali sia qualcosa a discrezione del Consulente, ma che al contrario si possa partire da una stesura e condivisione di buone prassi che – in “un’ottica multiculturale prevedano nuovi strumenti di analisi e di competenze specifiche nel settore” (De Felice, 2020).

Per tali ragioni, si rende necessario adeguare il nostro sistema alle nuove esigenze che la contemporaneità pone al fine di rafforzare quegli elementi di tutela che possano diventare fondanti di buone pratiche che assumano funzione di cura. Citando M. Andolfi e L. Cavalieri (2010) “introdurre la cultura come elemento sostanziale nelle valutazioni è un obiettivo ambizioso quanto ancora inesplorato, ma è basilare per costruire un nuovo modo di pensare” che possa guidarci all’interno della valutazione dell’idoneità genitoriale.

Allargando lo sguardo a tutti gli scenari ricostruiti, inoltre, si può rilevare che essi riflettono esperienze che richiamano ciò che Devereux teorizzava come controtransfert culturale (Devereux, 1968). Le diverse narrazioni proposte, quanto i pensieri e le reazioni emotive e affettive che accompagnano il nostro lavoro “di frontiera” illustrano sia delle difese sia dei veri strumenti di lavoro attraverso cui leggere la realtà in cui operiamo.

Il rapporto dell’etnologo su una tribù, e l’interpretazione che dà della cultura di quella tribù, è quindi paragonabile a un test proiettivo: la cultura studiata costituisce la tavola del TAT o del Rorschach, il resoconto dell’etnologo costituisce l’equivalente delle risposte del soggetto testato” (De Felice, 2020). Tali “reazioni”, implicite ed esplicite secondo Devereux (1980), sono legate all’alterità culturale, alla differenza fra le nostre appartenenze e quelle dell’altro. Queste reazioni dipendono dalla nostra identità culturale di professionisti e di persone, dalla nostra identità di genere, storica e sociale, ma anche da ciò che l’altro proietta su di me, cioè dal suo transfert. Queste reazioni possono variare tra estremi diversi, dalla fascinazione che trasforma l’altro in un oggetto esotico al rifiuto razzista. In qualità di terapeuti e/o professionisti della salute mentale siamo richiamati a riconoscere questo controtransfert, elaborarlo e trasformarlo in lavoro di legame e di senso.

Ulteriore richiamo alla letteratura – per una migliore costruzione della relazione con l’altro – è rappresentato dai cinque livelli di possibile incomprensione messi in luce da Colasanti e Geraci (2000). A livello prelinguistico la difficoltà si situa nell’intenzionalità comunicativa e nella motivazione a esprimere ciò che si avverte interiormente; a livello linguistico, l’ostacolo è strumentale perché non si parla la stessa lingua; a livello metalinguistico, anche se si parla la medesima lingua, le parole richiamano concetti, significati e simbolizzazioni differenti; a livello culturale, possono essere fonte di incomprensione i comportamenti culturalmente acquisiti, per lo più inconsapevoli, come la distanza prossemica, la mimica, lo sguardo, i codici e le norme di comportamento, le gerarchie e i ruoli sociali e di genere; a livello metaculturale, infine, sono coinvolti aspetti religiosi ed ideologici.

In conclusione, le sfide della modernità richiedono sempre più un lavoro sulle differenze culturali. Il disagio socio-relazionale della persona e della famiglia con background migratorio, le difficoltà scolastiche dei giovani migranti o figli di coppie, le problematiche legate al pregiudizio e all’esclusione sociale richiedono un vero e proprio decentramento culturale che ci permetta di considerare tutto ciò che pensiamo come qualcosa di culturalmente determinato e non di “vero” in senso universalmente riconosciuto (Coppo, 2003). Per esplorare i processi nella loro complessità e ricchezza in modo sistematico non si può dunque non chiedersi quale sia il ruolo che la cultura e l’etnicità giocano nello sviluppo sociopsicologico ed economico delle varie popolazioni diverse in etnia e cultura;
quali sono i fattori socioeconomici e politici che determinano un’influenza significativa sullo sviluppo psicologico, politico ed economico dei diversi gruppi etnici e culturali.

Bibliografia

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Note

[1] Solo a titolo esemplificativo, si potrebbe ricordare che alcuni costrutti come quelli di “personalità” o “competenza genitoriale” possono essere diversamente definiti e approcciati metodologicamente a seconda dei propri modelli di riferimento teorici ed epistemologici, senza necessariamente presupporre che l’intera comunità professionale si riconosca in una definizione univoca di questi oggetti. Ciò è tanto più vero quando si lavora con persone di cultura non occidentale, situazione che richiede un esercizio attivo di problematizzazione delle proprie categorie.

[2] Questi casi sono stati smontati e rimontati ad arte ed i personaggi ed i fatti di cui parlo, per quanto reali, sono stati modificati per comodità, ma soprattutto per garantire la più assoluta privacy per gli interessati. Per cui è il caso di dire, come nei vecchi film o nell’album degli italiani Calibro 35, che ogni riferimento a persone esistenti o a fatti realmente accaduti è puramente casuale.

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