La mattina del 17 maggio Faenza, come altre cittadine e paesi limitrofi in Romagna, faceva i conti con la distruzione e con la perdita, dopo la violenta alluvione notturna. I punti di riferimento tangibili del nostro orizzonte erano sommersi dall’acqua e dal fango: le strade, le case, gli esercizi commerciali, i luoghi di incontro sociali, formali e informali, ricreativi e aggregativi: quasi tutto il nostro mondo! Le testimonianze sono quelle di una pedagogista, due psicoterapeute e una docente del liceo, che vivono e lavorano con gli adolescenti in questa comunità.
Erika Cosotti, Pedagogista, Faenza
Buio totale. Nessuna luce in strada, se non i fari degli elicotteri che cercano persone da salvare. La strada è un fiume in piena, si sente solo il rumore dell’acqua che scorre e i mezzi di soccorso sopra di noi. Sono le 03:17 e tutto mi appare surreale. Penso alle famiglie, ai bambini, ai ragazzi e a come sarà il domani rispetto ad un evento così grande. Nei giorni successivi però la forza lavoro prende vita: i protagonisti sono i ragazzi, che in un batter d’occhio si organizzano e si mettono in strada, lavorando instancabilmente. Oggi sono protagonisti “buoni”, non sono etichettati come quelli che si chiudono nel loro mondo faticando a creare relazioni concrete e se ne stanno cupi davanti ad uno schermo. Oggi non è così, i ragazzi si riscattano scendendo in strada pieni di energia e mostrando al mondo di cosa sono capaci. Chi sono questi ragazzi? Li osservo: ridono, scherzano, lavorano, sudano, mangiano e bevono voracemente. Si fermano e parlano. Si fanno confidenze in mezzo al fango, nascono amori e simpatie. Cala la sera e sporchi di fango e sudore si riuniscono nella piazza principale della città creando un momento di condivisione e speranza, sembrano un corpo unico. Sono lontani dal giudizio e dalla paura di non essere adeguati, “sono” e basta. Li percepisco solidi. La frase ricorrente che esce dalla bocca dei ragazzi è: “Chi ha bisogno? A chi posso essere utile?”. Viaggiano in coppia o in gruppo da chiunque abbia bisogno; non sono legati alla conoscenza, alla sola casa del nonno o dell’amico, ma partono all’avventura con pale e stivali. Un ragazzo in studio mi racconta di aver ritrovato il suo corpo: sulla porta, pieno di fango, mi racconta di essere fiero del suo corpo che gli sta permettendo cose che mai avrebbe immaginato di poter fare e in tutto questo la mente lo sostiene. Si sente solido e slegato dal concetto del tempo. Una ragazza di 16 anni che ha perso tutto, nel primo colloquio post alluvione, mi racconta di essere pervasa da un duplice sentimento contrapposto: “Sono viva, sono felice e questo mi permetterà di ricostruire ciò che non andava, mi permetterà di avere una casa con spazi che tengano conto anche di me, ma d’altro canto sono terrorizzata da cosa potrà succedere dentro di me fra qualche tempo. Mi tornerà l’ansia? Avrò notti insonni? Riuscirò a gestire tutto questo? Temo le emozioni post-euforia, lavoro tanto, aiuto tanto da tutti i punti di vista, ma la cosa che non possono togliermi in questo momento è la relazione con gli altri, in particolare con il mio clan di amici. Ho bisogno di vivere le esperienze che il mio normale percorso di vita prevede.” Un ragazzo diciottenne: “Ho paura di perdere le persone amate, le sirene e gli altoparlanti risuonano ancora dentro di me, mi sveglio tre/quattro volte a notte con un peso sul cuore e sullo stomaco. Ho la fobia dell’acqua sul pavimento e continuamente controllo se c’è fango a terra. Gli incubi sono ormai calcificati dentro di me: sogno di cadere nel vuoto, essere a funerali, vedere tutto ciò che mi appartiene disperdersi nel fango. La malattia e la morte sono all’ordine del giorno nei miei sogni. Prima dell’alluvione tutto questo non c’era, cosa si è mosso dentro di me? Di cosa mi devo occupare?”. Raccogliendo tutto il materiale e ascoltando i ragazzi noto un’analogia con il periodo del Covid-19, ma al tempo stesso una grande differenza: la somiglianza sta nel portare a galla ciò che non è visibile. L’evento traumatico ha messo in luce paura, terrori, forti preoccupazioni, esattamente come successe durante la pandemia. La differenza è che oggi i ragazzi, sentendosi protagonisti dell’alluvione, se ne occupano in maniera diretta e attraverso i segnali del loro corpo e delle loro emozioni riescono a chiedere aiuto in maniera più diretta e consapevole.
La comunità di Faenza
Ornella Roselli, Psicologa, psicoterapeuta, Faenza
Vivo e lavoro come psicoterapeuta a Faenza, da circa 13 anni; imparando i codici culturali di questo luogo, ho sentito un forte senso di appartenenza. Cittadina fiera e tranquilla fino al 2 maggio e poi il 16 maggio scorso. Una alluvione inonda Faenza e dintorni, una notte da incubo che non dimenticheremo mai. La mia casa è salva, il mio studio colpito da acqua e fango, la città quasi interamente colpita; il quasi è importante, perché nei giorni successivi all’evento, in chi è stato non colpito, o meno colpito rispetto a chi ha perso tutto (casa, auto, lavoro), vi è un forte senso di colpa. Per 4 giorni ho spalato fango, e tutta la città reagisce con forte energia. Temo che nella cultura del posto, per cui Fare è il centro della propria identità, arriverà in modo spiazzante l’inevitabile down. Quasi tutti i pazienti mi chiedono di riprendere i colloqui, e mi rendo conto che devo fermarmi ad ascoltarmi, perché anche io mi sento fortemente coinvolta dal trauma collettivo, devo capire come sto.. In fondo l’esperienza del Covid mi può aiutare, penso, ma questa volta non è su scala mondiale l’evento, ed è davvero molto strano vedere case e locali intatti e altri sommersi; mi chiedo come cambierà la città e temo una frattura. Il 17 maggio mi scrive N. di 16 anni, mia paziente da un anno, mi invia la foto del portone dello studio, il nostro luogo di incontro e lavoro, mi dice che è stata a spalare, ed è stato bello e brutto nello stesso tempo. R. di 16 anni, torna in studio dopo un mese, perché dal paese dove vive lui, per raggiungere Faenza la strada è bloccata; mi racconta con dispiacere, che quella notte ha dovuto sostenere la madre molto in angoscia, che ha trovato sicurezza solo quando il giorno dopo è arrivato suo padre che era via per lavoro. F. 16 anni mi racconta che nei giorni di allerta, con le scuole chiuse, era contenta di stare a casa, leggendo e ascoltando la musica.. Solo quando è andata fuori casa con i suoi genitori, a spalare si è resa conto dell’accaduto. L. ha saltato diversi appuntamenti, perché ha scelto di spalare a casa di amici, e non si è preoccupata di non studiare, è ciò è nuovo per lei. Dopo un mese dall’alluvione mi raccontano della loro vita, come se nulla fosse accaduto; penso a noi adulti, preoccupati per l’economia del territorio, dei rischi psicologi della popolazione, e in fondo mi solleva vederli ed ascoltarli, pensare ad altro : amori, amicizie passioni. Negli adulti si sono rotti gli argini delle emozioni, ma loro, gli adolescenti che sono al lavoro in terapia, sono rimasti arginati nella loro vitalità. Chissà cosa accadrà nel futuro prossimo in questi territori, ma vedere loro così aperti alla vita, non travolti dagli accadimenti traumatici, mi fa ben sperare.
Simona Tolve, Psicologa, psicoterapeuta, Faenza
Sono in studio il pomeriggio del 16 maggio, in pausa vado a prendere le capsule per il caffè di sotto, e il giovanissimo esercente del negozio, che verrà irrimediabilmente danneggiato dall’esondazione, mi chiede se ho paura, dico di si, che ne ho tantissima, abbiamo già vissuto gli esiti disastrosi della prima alluvione del 2 maggio, e da un paio di giorni una allerta minacciosa grava particolarmente nel nostro quotidiano. Alle 18.50 arriva il comunicato del sindaco sui social “salite tutti al piano più alto del vostro edificio. Non mettetevi in strada per nessuna ragione”. Attendevo online D., 18 anni, che viene da due anni, di mattina mi aveva inviato un messaggio, chiedendomi di fare la seduta online. Alle 17 un suo nuovo messaggio, la situazione era peggiorata, chiedeva se io lavoravo o no, voleva vedermi online. D. non si collega, non risponde a un messaggio che gli invio, scappo a casa trafelata, S. mi scriverà di notte “ci è entrata l’acqua a casa ti aggiorno poi”. È stata la notte più lunga, un’apocalisse. Le successive sedute di D., online, lo vedranno mostrarmi in video chiamata l’abitazione provvisoria che la sua famiglia ha rimediato, raccontarmi di essere stato portato via con un gommone, essere finito due giorni dopo al pronto soccorso, avere contribuito a salvare le foto di famiglia su richiesta della madre, ostinarsi a fare progetti irrealistici per il prossimo anno scolastico (aveva scelto di ritirarsi da scuola la settimana prima dell’alluvione), riferirmi che si stava occupando di provvedere a una connessione idonea ai suoi bisogni perché lui gioca online, lamentarsi di una condivisione forzata di spazi ridotti con i familiari, accettare suo malgrado di non potere trasferirsi da ospite a casa degli zii. Dopo un mese ricomincerà a saltare le sedute senza avvertire e scollegandosi dalla messaggistica con cui potrebbe essere rintracciato, e so che dovremo nuovamente trovare il significato delle sue sottrazioni alla relazione con l’altro, perché D. tende a isolarsi dal sociale. G., 18 anni appena compiuti, invece non ha perso nemmeno una seduta, è riuscito a venire martedì 16, poco prima della tragedia, e il martedì successivo, quando avevamo appena riaperto lo studio, tra fango e strofinacci. L’acqua si è fermata poco prima di casa sua, lui è stato sveglio e vigile per tutta la notte. Anche G. non sta bene nel sociale, non va più a scuola da due anni, è arrivato allora da me in preda all’angoscia, e da un po’ di tempo sta provando a muoversi per affrontare la sua fobia. Si è avventurato nella parte più disastrata della cittadina accettando l’invito dei genitori di andare ad aiutare amici di famiglia sommersi, ha sentito disagio perché gli altri ragazzi erano in gruppo, però si rende conto che per lui è stato tanto recarsi lì e aiutare per tre ore. Nel suo progetto di ripartenza con la bella stagione avrebbe fatto dei giri in mountain bike per uscire da casa, ma le piste ciclabili sono state divorate dall’acqua, non resta nulla. Riuscirà comunque a recarsi con la sorella al cinema e in un fast food di aggregazione sociale nelle settimane successive, e mi parlerà sempre dell’acqua e del fango, chiedendomi se so se hanno recuperato lo skatepark o il campetto di basket, dove andava a giocare prima di ritirarsi dal mondo. La madre di L., che partecipa a un gruppo di auto-mutuo aiuto di genitori con figi in ritiro sociale che io facilito, racconta che il ragazzo, 14 anni, è stato irrequieto per tutta la notte urlando “basta, che sommerga subito tutta la città, arriva l’acqua, da noi arriva, quando arriva?”; dopo tre giorni L., iscritto a un gruppo telegram dove scrivevano anche i pochi amici con cui si tiene in discontinuo contatto, è uscito per partecipare a una catena umana che si passava secchi, nel week end successivo è voluto andare al mare con i suoi due unici amici.
Erika Aleotti, Docente Liceo Torricelli-Ballardini Faenza
“Adolescenti senza mondo” : perché questo titolo? “Senza”? Li stiamo privando di qualcosa? Di uno spazio che li identifica, li classifica come siamo abituati a incasellare tutto per trovare un senso o si potrebbe pensare a un “senza” rispetto ad una non classificazione, liberi, lontano da classificazioni e pregiudizi? Forse in questo “senza” c’è un mix di tutto, persone non classificabili che non sono come eravamo noi, come vorremmo, standard, uguali, omologate, che non riusciamo a vedere perché diverse, perché la diversità spaventa e meglio non occuparsene per non farsi troppe domande. Meglio non vedere, non riconoscere, fermarsi all’idea che dovrebbe essere così, perché è sempre stato così, noi eravamo così, invece di cambiare lo sguardo ed aprirsi a nuove consapevolezze. Richiede tana energia, tanta empatia..meglio sedersi sempre “dietro la cattedra”. Non lo faccio mai di sedermi dietro la cattedra, mi siedo spesso sopra o cammino gesticolando tra i banchi cercando di “vederli” tutti. Quel giorno (il 26 Maggio), il giorno del rientro a scuola, sentivo che vederli non sarebbe stato abbastanza, la differenza più che mai l’avrebbe fatta l’ascolto, l’ascolto quello vero, quello delle loro sensazioni, timori, gioie e dolori, non l’ascolto “giudicante” al quale sono abituati a scuola (interrogazioni). La difficoltà iniziale è stata enorme perché non sono abituati a parlare di sé, a dar voce al loro intimo o forse non sono abituati ad avere davanti un adulto pronto ad ascoltarli e a non giudicarli. Parlare del mio vissuto di quei giorni, di quella notte di terrore, dei ricordi del passato (terremoto) riaffiorati in quelle ore, delle paure, dell’impotenza di fronte alla natura, della solidarietà, della gioia nel sentire che amici e parenti stavano bene, ma anche il senso di colpa per non aver avuto danni tutto condito da qualche lacrima e sorriso. L’autenticità e lo scoprire che quello che ho provato (io adulto) e raccontato loro gli apparteneva, è stata la chiave di svolta di un fluire di pensieri ed emozioni da parte di tutti, mossi dal desiderio di raccontarsi e riconoscersi, essere riconosciuti e visti in un mondo che non li considera. “Allora c’è speranza in un futuro migliore, i giovani qualcosa sanno fare, hanno voglia di faticare e lavorare” (il pensiero di molti sui giovani di oggi)…sono parole che immagino nessun ragazzo abbia avuto il piacere di sentire, ma allo stesso tempo credo li abbia riempiti di orgoglio , di vitalità e rivalsa in un “mondo” che troppo spesso non li vede, né tantomeno li ascolta: “mondo” distratto a pensare al successo , al riconoscimento, ai social, al fare, a fare paragoni con il passato, “mondo” che a molti adolescenti non piace, “mondo” al quale non si sentono appartenere e ne prendono le distanze (apparendo e giudicati svogliati, menefreghisti da noi adulti). Si sono mossi liberamente nella società, in autonomia o a fianco di adulti che li hanno visti e non giudicati. Hanno dato dimostrazione di “saper fare” che è ben diverso ed è un gradino oltre il “sapere” che troppo spesso ricerca ancora la scuola. Abbiamo chiesto e loro hanno dato, dato con il cuore senza pretendere nulla in cambio e spesso riuscendo ad anticipare e cogliere i bisogni non ancora emersi. Quindi questi giovani che ci appaiono “fuori dal mondo” o “senza mondo” non è forse semplicemente che ci stanno osservando, consapevoli della pochezza e del vuoto che li circonda, se ne stanno li in disparte ma pronti a dire la loro quando ne vale pena? Vederli, vederci, ascoltarli, ascoltarci, tutti un po’ di più, giovani e meno giovani, adulti, anziani, rallentare un po’ e fermarsi un po’ di più sulle relazioni non solo quando tutto intorno si ferma (come anche di recente durante la pandemia) e il bisogno di ripartire da quello che sentiamo è così forte da farci esplodere, ma sempre ogni giorno. E’ faticoso ma quanto ci fa sentire vivi e veri nel qui e ora! Una cosa che mi ha colpito nei loro racconti è stato “il non piangersi addosso” dei ragazzi che hanno perso tutto, e l’esigenza di dover far sapere che tanti amici li hanno aiutati, ma anche del far sapere che una volta “sfangata” la propria casa sono andati ad aiutare gli altri. Questo mix di senso di colpa, solidarietà e far sapere agli altri (mondo social), ci mostra come “romagnoli” o smaschera le nostre “debolezze”? Solidarietà, adattabilità e sensibilità, questo ho ritrovato nei ragazzi; qualità di cui non sono stupita, perché ogni giorno le mettono in campo in palestra durante le lezioni di scienze motorie, e altri momenti della loro vita scolastica, qualità che però dovrebbero poter sempre mostrare nel contesto scolastico e non. I nostri ragazzi hanno fatto di tutto dallo sfangare, sporcarsi, buttare ricordi per/degli altri, trovare parole di conforto da donare a sconosciuti, regalare sorrisi e vitalità in contesti disperati, pronti ad adattarsi e fare qualsiasi cosa potesse essere d’aiuto in quel momento e liberi da ogni pregiudizio ma mossi dal cuore: però hanno dovuto anche ascoltare e/o subire pregiudizi usciti dalla bocca degli adulti, proprio quegli adulti che loro stavano aiutando. I ragazzi hanno dato un’alta lezione di libertà e maturità sociale…scolasticamente parlando una bella lezione di educazione civica. Perché l’adolescente che noi richiudiamo “nel suo mondo” e non consideriamo, è sensibile, riconosce i pregiudizi (cit. riportate “a noi servono maschi perché dobbiamo spostare mobili”…”cosa pensi di fare ragazzo con quei muscoletti flaccidi che ti ritrovi?”), non si ferma al giudicare ma riesce ad andare oltre, vede la realtà per quella che è, e l’adulto no? Credo nei giovani, nella loro sensibilità, nella loro capacità di poter migliorare/cambiare il “non mondo” perché liberi dai pregiudizi che ancora bloccano l’evoluzione del genere umano, ma dobbiamo essere noi adulti a bussare alla porta “loro mondo” dando loro fiducia e possibilità di mostrasi per quello che sono senza per forza giudicarli.
Il nostro studio di Psicoterapia
Riflessioni sul trauma collettivo
Se nel trauma collettivo recente del Covid-19 la sicurezza del mondo è stata affidata all’istituzione, e la vicinanza con l’altro è stata interdetta e presentata come pericolosa, nel trauma collettivo della catastrofe naturale in Romagna è intervenuta immediatamente la comunità, la risorsa è stato l’altro vicino a noi fisicamente, e gli adolescenti sono stati risorse. Come accaduto durante la pandemia, l’alluvione ha portato a galla il sommerso della mente, che è stato espresso, messo in parola, e condiviso tra adolescenti e adulti, stavolta anche tra i corpi. Ci diciamo che la differenza l’ha fatta non solo la necessità di doversi incontrare fisicamente per reagire insieme, ma più il non percepirsi dipendenti da un’istituzione, essere membri attivi della comunità. La devastazione climatica ha generato un’emergenza sistemica: si è velocemente auto-organizzato un sistema comunitario la cui struttura ha legittimato gli adolescenti a intervenire a pieno titolo, protagonisti di azioni e relazioni nel qui e ora, presenti insieme come individui e come gruppo, senza avvertire il rischio o il dovere dell’omologazione. Il legame del gruppo è stato determinato dall’integrazione, c’era la consapevolezza dei bisogni di tutti. Tutti coesi, realizzavamo il bisogno dell’altro, passando dall’individuale al gruppale, in un assetto di interdipendenza, gli adolescenti facevano gruppo con gl adulti ed erano il gruppo dei ragazzi, dei “burdel de paciug” (i ragazzi del paciugo). Gli adolescenti sono stati nella complementarietà del sistema, esperendo sentimenti di appartenenza e affiliazione, dentro un clima di corrispondenza e partecipazione che ha definito i legami con i membri adulti del gruppo. Si è virtuosamente avviato un percorso che ha realizzato in tempi molto brevi l’evoluzione di un gruppo in un gruppo di lavoro, con gli adolescenti realmente integrati; l’obiettivo era comune, liberare il più possibile le nostre città dall’acqua e dal fango, il metodo è stato la ricerca delle risorse e l’utilizzo collettivo di tutti gli strumenti efficaci (stivali, scope, badili, tira-acqua, secchi, ma anche canali e gruppi sui social dove venivano segnalati i luoghi in cui c’era offerta e bisogno), e i ragazzi sono stati pienamente risorse: avevano il loro corpo, erano attrezzati di strumenti pratici e dimestichezza digitale, e hanno messo a disposizione il proprio tempo. I corpi sono stati drammaticamente vicini l’uno all’altro, sudati, fradici, infangati, forzuti, preziosi, affamati, sfiniti, eccitati, carichi di tensione vitale: ragazzi indispensabili nelle catene umane passavano i secchi, flessibili nell’opportunità di aiutare non solo e necessariamente i propri familiari, si spostavano per loro iniziativa per le cittadine e le campagne limitrofe, in gruppi piccoli o grandi, ovunque c’era bisogno di loro; non hanno sentito di dover performare per compiacere e soddisfare gli adulti, ma si affidavano alla loro motivazione e ai valori condivisi. Li abbiamo osservati mentre si informavano, indicavano a noi adulti dove avremmo potuto reperire gli stivali, comunicavano ai coetanei dove volevano andare ad aiutare e li coinvolgevano e li convincevano, li motivavano, poi si organizzavano, c’erano, accoglievano pronti i coetanei che vedevano per la prima volta, affidabili, aperti e integrati con gli altri. Il feedback che gli adolescenti hanno ricevuto è stato un contatto umano pieno. Se da una parte ci sono stati anche adulti che non li hanno valorizzati e hanno espresso pregiudizi in merito al loro corpo (ad esempio la forza necessaria per spalare e spostare detriti, oppure facendo riferimento a ruoli stereotipati del maschile e del femminile (i maschi sono più forti e utili delle femmine), per lo più raccontano per lo più i ragazzi raccontano un’ eco di “grazie” da parte degli adulti ai quali si sono proposti: tanti “grazie” autentici, realmente grati, sorpresi, che hanno contribuito a un arricchimento reciproco e alla riscoperta del loro valore.
Man mano che si sgombra fino a rendere possibile il rientro, i detriti, i segni ancora indelebili dell’acqua sui muri, il forte odore di umido e la percezione che molto sia insalubre, ci costringono a ricontattare le emozioni intense e complesse vissute da tutti, e raccontateci dai nostri adolescenti: paura, rabbia, inquietudine, senso di smarrimento, incubi, sensazione intrisa di colpa di essere sopravvissuti, non avere o avere perso tutto, tristezza, angoscia, senso di minaccia, perdita di certezze, ma anche gioia, fierezza, gratitudine e speranza, una complessità di emozioni difficile da tenere insieme, complessità che caratterizza la fragilità dell’adolescenza. La fragilità è una condizione umana, in particolare la fragilità dell’adolescenza, con le sue scalate nei cieli della gioia e della speranza e le sue discese negli abissi dell’insicurezza e della disperazione. L’adolescenza è l’età nella quale la pienezza e lo scompiglio delle emozioni hanno forme e tematiche drasticamente originali, caratterizzate dall’immediatezza e dalla spontaneità delle esperienze. Nell’esperienza adolescenziale si scorge il desiderio ardente di contatto interpersonale, di relazione, che spesso si confronta con il vuoto, con il rischio del disinteresse e dell’indifferenza, dell’estraneità e della devitalizzazione emozionale, o del giudizio e pregiudizio dell’Altro. Riconoscere la fragilità è un impegno etico: i modelli di educazione e formazione ai quali la scuola si uniforma, se c’è troppa rigidità formale, rischiano di rinunciare alla rilettura dei comportamenti e degli avvenimenti. Le parole che usiamo con gli adolescenti e che da loro ascoltiamo, sono dotate di un immenso potere, sono in grado di aiutare a dar voce alle loro emozioni e al loro dolore, del corpo e della mente. Ci hanno parlato di gioia, emozione “friabile e fragilissima” che si sente solo se ci si apre agli altri, con dedizione e solidarietà, che consente di intravedere la luce anche quando si è nelle tenebre; di speranza, sfida continua alle banalità e alle apparenti certezze della vita. Sappiamo che la coesione sociale, il supporto reciproco, il forte senso di comunità, sono state dimensioni positive e protettive. La comunità di cura è una forma di vita, di vicinanza umana e solidarietà, alla quale siamo tutti chiamati, pedagogisti, psicologi, insegnanti e non solo, ed è il luogo dove la fragilità adolescenziale può trovare ragioni di speranza. Il corpo di tutta la comunità si è mosso da subito, come per sentire che il pericolo è passato, ma i nostri ragazzi riescono a vivere maggiormente il presente e immaginano già il futuro. Il loro senso di controllo, inteso come capacità e possibilità di reagire si è attivato quasi da subito. Essere stati parte della comunità, sia prima che dopo l’alluvione, secondo noi ha permesso loro di non sentirsi estranei rispetto al proprio sé interno. Probabilmente, il lavoro pedagogico e psicologico già avviato precedentemente con professionisti del settore, li ha messi velocemente in connessione con le emozioni generate dal trauma, che provavano sentendo di poterle padroneggiare; il loro allenamento a sapere cosa sentono lì ha aiutati a capire perché sentono in quel modo, nonostante si trattasse di una esperienza traumatica. Il supporto sociale, dei volontari venuti da varie parti di Italia, protezione civile, vigili del fuoco, sono stati una grande protezione, evitando una probabile sopraffazione delle emozioni traumatiche. Sentirsi compresi e tenuti a mente, permette agli adolescenti di percepirsi maggiormente al sicuro, di abitare e persino nutrire la comunità. Ci vorranno diversi interventi sul territorio per sentirsi di nuovo al sicuro, ma il sentimento di coinvolgimento sociale è stato un primo segnale fondamentale. Sappiamo che questo “mondo” non sarà più lo stesso, ma sappiamo anche che: i ragazzi chiedono e noi rispondiamo, in un territorio in cui le istituzioni hanno garantito un sentimento di comunità, di sicurezza e fiducia. E noi siamo e vogliamo essere istituzioni di questo territorio, ancor di più in questo momento in cui sembra perso il loro mondo.
Gli adolescenti hanno estratto dal fango, portato in piazza, e ben attrezzato il panda, mascotte della comunità
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
Borgna E., La fragilità che è in noi, Giulio Einaudi editore spa, Torino, 2014.
Cavaleri S., Lo piccolo C., Ruvolo G., (a cura di), L’inutile fatica. Soggettività e disagio psichico nell’ethos capitalistico contemporaneo, Mimesis Edizioni, Milano, 2016.
Francesconi C., Piccinini C. (a cura di), Hikikomori: il futuro in una stanza. Frame dal territorio per una nuova comunità, Franco Angeli, Milano, 2023.
Quaglino G.P, Casagrande S., Castellano A.M., Gruppo di lavoro, lavoro di gruppo, Raffaello Cortina Editore, Milano, 1992.
Van der Kolk B., Il corpo accusa il colpo. Mente, corpo e cervello nell’elaborazione delle memorie traumatiche, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2017.
Lunedì 27 gennaio non sarà disponibile l’accoglienza telefonica.