Isolamento forzato / “Hikikomori”. Vulnerabilità al tempo del Covid-19
Esperienze cliniche | Dicembre 2020
Autori: Dott.ssa Rossana Carmagnani - Dott. Salvatore Picone

I rapidi cambiamenti della società italiana in genere, del mondo della salute e della scuola nello specifico, al tempo del COVID-19, sollevano l’esigenza di un approccio nuovo sul piano formativo, educativo-didattico e operativo, dell’atteggiamento mentale e della prevenzione della salute in chiave bio-psico-sociale. È lecito chiedersi se le forme di espressione e di comunicazione che si stanno sviluppando in preadolescenza e adolescenza al tempo del COVID-19, unite al già temuto e diffuso fenomeno del ritiro sociale attivo e volontario conosciuto col termine: “hikikomori”, siano i presupposti per intervenire nel capo della formazione, prima che la situazione sfugga dalle mani.

Il termine “hikikomori” è formato dalla fusione di due verbi: hiku 引く “tirarsi indietro”, “scomparire” e komoru 篭るche significa “isolarsi”, “confinarsi”: “l’HIKIKOMORI è una risposta di isolamento attivo e volontario al senso di abbandono e alle doverizzazioni sociali e familiari, che il soggetto attua perché non adeguatamente accompagnato nel processo educativo e formativo del carattere, della coscienza e dei sentimenti” (S. Picone).

Il disagio hikikomori indica una condizione in cui l’unica possibilità di sopravvivenza sembra essere, per chi ne soffre, quella di allontanarsi dalla società e “scomparire”, ritirandosi completamente nella propria stanza. I soggetti coinvolti mettono fine a qualsiasi forma di comunicazione, erigono la loro camera a fortezza per proteggersi dalla società, nel peggiore dei casi vivono solo all’interno della camera, interrompono e/o limitano al necessario la comunicazione con propri familiari. Il fenomeno del ritiro sociale è da considerarsi come una risposta attiva poiché l’hikikomori puro, al momento dell’insorgenza del ritiro, non presenta sintomi psicologici e/o psichiatrici né tantomeno è da confondere con una dipendenza da internet. Basti pensare che quando nacque in Giappone (1978) internet non esisteva.

Il disagio hikikomori è lo specchio della società di oggi, tale forma di ritiro e isolamento sociale, investe i campi della sociologia, della medicina, dell’antropologia, della psicologia e dell’educazione.

 

LA PREVENZIONE AL TEMPO DEL COVID-19 È POSSIBILE?

L’educazione alla genitorialità, ai valori e ai sentimenti, unita alla presenza inclusiva scolastica, appare come la forma migliore di prevenzione e di contrasto al disagio hikikomori e all’isolamento prodotto dal COVID-19.

Gli educatori in genere e i genitori nello specifico dovrebbero, in onestà, sottoporre a una sana autocritica il proprio sistema di osservazione e controllo educativo; in questo modo potrebbero trasmettere ai figli dei solidi punti di riferimento (di cui essi hanno bisogno per crescere nella sicurezza di quello che vogliono) e la capacità critica, che aiuti a interiorizzare più la sostanza del valore che la concreta forma sociale e storica in cui si manifesta.

La formazione al carattere, alla coscienza e ai sentimenti rimane l’antidoto culturale in grado di comprendere e affrontare il disagio e le forme di vulnerabilità dei ragazzi al tempo del Coronavirus. La comunicazione da attivare con i soggetti in condizione di vulnerabilità e hikikomori dovrebbe procedere attraverso soglie d’intensità sempre più profonde, che nella relazione educativa tocchino dapprima i bisogni fisiologici e gli stati emotivi della persona, successivamente l’impegnativa ricerca della sua identità, del suo progetto di vita, delle sue esperienze affettive e amorose, del tempo trascorso in casa o, nello specifico, nella propria stanza, in perenne connessione social e/o virtuale.

Il soggetto hikikomori ha bisogno che i genitori, i parenti, gli educatori, gli facciano da specchio, che sottolineino le sue frasi, che lo aiutino a cogliere le sue contraddizioni, che gli riformulino la positività di certe sue consapevolezze.

Ancora una volta, è importante che tutte le figure coinvolte nella cura del disagio, non perdano di vista il fatto che il rapporto e la comunicazione da costruire con il soggetto siano una forma di relazione di aiuto, dove uno aiuta e l’altro è aiutato, dove uno è cresciuto e l’altro non ancora: questo non rende possibile una reciprocità speculare di comunicazione, ma pone le condizioni perché l’hikikomori e la vulnerabilità soggettiva non si sviluppi nella sua autonomia.

 

PROTOCOLLO DI INTERVENTO

Consapevoli della difficoltà di un percorso tra ambivalenze e opportunità, suggeriamo la necessità di educare alla libertà e alla autonomia:

Quando si ha l’impressione di aver letto tutto quello che si poteva leggere e di avere ascoltato tutto ciò che si poteva ascoltare su un certo problema e su una certa realtà, allora è giunto il momento di mettere tra parentesi la dottrina e di far parlare il cuore della propria esperienza di vita e del proprio personale cammino di crescita umana. La vita e il costante rapporto con i giovani e con la gente in genere, ci hanno insegnato che la persona è veramente una realtà unica, sovrana, inviolabile, capace di donare nei rapporti privilegiati il meglio di se stessa; ma ci hanno insegnato anche che la persona non è onnipotente. Il limite interno della sua stessa natura, dell’egoismo, del bisogno, della dipendenza, e il limite esterno dell’ambiente, delle attese degli altri, dei pregiudizi storico-culturali, catturano la sua regalità”.

L’educazione, se è veramente un trarre fuori (dal latino e-ducere) la totalità della persona dal bozzolo di tutte le sue possibilità, si rivela un esodo e una consapevolezza. È un esodo fuori dal recinto dell’egoismo e dell’auto riferimento. È il raggiungimento della consapevolezza dei propri limiti, chiamati con il loro nome: fragilità, infedeltà, aggressività, prepotenza, pigrizia…

Educare la persona vuoi dire, quindi, renderla capace di libertà e di consapevolezza delle motivazioni del proprio agire:

  • libertà dal: condizionamento interno ed esterno, attraverso la coscienza del limite personale e la capacità di chiamarlo con il proprio nome;
  • libertà di: compiere la fatica di cambiare positivamente se stessi, con vantaggio proprio e altrui e di gustare il cambiamento come rottura di una gabbia rassicurante ma imprigionante;
  • libertà per: per donarsi e per donare, rompendo il circuito dell’individualismo indigente e predatorio per lasciare il posto alla sovrabbondante generosità della persona (J. Maritain).

 

La persona non vive questo processo spontaneamente, ma solo se orientata e stimolata dall’intervento dell’educatore. L’educatore deve avere elaborato dei precisi itinerari che gli consentano di accompagnare la persona con sicurezza e rispetto. Si tratta di convinzioni e di atteggiamenti, di proposte concrete e di momenti di verifica che non rappresentano una ricetta infallibile, ma piuttosto la cassetta degli attrezzi di cui servirsi in una azione che richiede pazienza, gradualità e una forte motivazione.

Ogni itinerario è accomunato altri da tre fattori fondanti:

  • la conoscenza del contesto socio-economico, etnico-culturale, familiare e personale dell’educando, portatore di qualità, di limiti, di aspirazioni e di reali possibilità;
  • la capacità di individuare passi specifici che l’educando possa compiere adeguati alla sua persona, nella totalità psicofisica;
  • il possesso di strumenti e di strategie che consentano il raggiungimento dello scopo educativo.

 

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