Partigiani della vanità, o del crollo delle strutture desideranti
Elaborazioni teoriche | Ottobre 2022
Autore: Calogero Lo Piccolo

È tutto un gran discutere durante le settimane estive, come spesso accade in questo paese nella contingenza contemporanea, che dura però ormai da qualche decennio. Tutto un gran discutere di devianza e narcisismo, un accapigliarsi confuso di cui non si coglie bene il senso ultimo, oltre che i termini non semplici dei contenuti in gioco.
Certo colpisce nel 2022 sentire parlare di devianza giovanile, ancora più in termini così approssimativi e sommari. O un uso altrettanto approssimativo di categorie diagnostiche e generiche, ma suppongo che tutto nasca sempre da un tentativo di riuscire a ragionare su cosa determini oggi delle condizioni di esistenza tanto pregne di distruttività e malessere.
La cronaca quotidiana è sempre più specchio di fatti che non possono non interrogare nel profondo e lasciare spiazzati e sgomenti. E, aldilà degli episodi più eclatanti, il livello medio del malessere psicologico può essere testimoniato pure dalla mole di richieste di aiuto, ulteriormente certificato dalle 130.000 richieste relative al bonus statale in meno di 48 ore.
Che accade quindi e, soprattutto, che fare? Che strumenti di lettura possiamo provare a mettere in campo per ristabilire un possibile circolo virtuoso tra la comprensione dei fatti meramente soggettivi e il tessuto sociale dentro cui tutto ciò si esplica, ed anche, complementariamente, come i modi soggettivi di abitare il sociale determinano un fallimento delle proprie esistenze e della convivenza umana nel complesso?
Detto più semplicemente, come possiamo riattivare un pensiero che tenga assieme la cura del comune da parte del soggetto con la cura del soggetto da parte del comune. Che tenere assieme un pensiero sulla psicopatologia individuale con le sue matrici sociali a questo dovrebbe servire.

Durante la campagna elettorale, il partito di destra candidato a governare il paese pone l’attenzione su una serie di condizioni che hanno a che fare con il malessere psicologico. Il modo in cui questo viene fatto scatena però non poche questioni di merito e di metodo. Un elenco di condizioni varie vengono raggruppate sotto l’etichetta di “devianze giovanili “.
Lasciando da parte i contenuti dell’elenco, nonché le sbrigative misure da contrapporre a tali “devianze”, sport e cultura non altrimenti specificati, sono proprio i due termini definitori a suscitare sgomento.
Per dirla tutta, la certezza che chi ha immaginato quella comunicazione e chi l’ha condivisa non sappia di cosa sta provando a parlare.
Cosa si intende per devianza? Chi definisce cosa è deviante e a partire da quale ordine del discorso? E, soprattutto, quale è oggi la norma che ci dovrebbe permettere di stabilire gli scostamenti dalla stessa? O, ancor più, la presunta norma cercata e proposta costituisce un modello di benessere, e di benessere per tutti o per tanti?
Quale sarebbe oggi il modello antropologico da perseguire attraverso il sistema di norme che dovrebbe favorire lo sviluppo soggettivo e la inclusiva convivenza sociale?
Devianza è un termine che viene estrapolato dalle scienze statistiche, dalle scienze sociali, dalle scienze umane o che altro?
Non parliamo poi del termine “giovanile”.
Quale è oggi esattamente il confine che delimita la fascia d’età giovanile? Quindici, diciotto, venti, venticinque, trenta, quaranta?
Tabagismo, tossicodipendenza, disturbi del comportamento alimentare, alcolismo sono davvero fenomeni confinati dentro una fascia di età precisa in modo preponderante? A quali dati statistici si fa riferimento? A quali dati clinici? Davvero c’è uno studio approfondito volto a comprendere il livello di malessere sociale, senza peraltro specificare livelli di soglia differenziale, oppure è soltanto un procedere approssimativo che, come da un paio di decenni almeno avviene, serve soltanto a non occuparsi di nulla e lasciare che le cose vadano per loro conto?
Michel Foucault ha impiegato gli studi di una vita a cercare di definire come nel corso del tempo sia stato costruito il concetto sociale di ‘anormale ‘, di come questo sia mutato nei secoli e di come abbia sempre corrisposto a rapporti di potere tra gruppi sociali, più che ad entità naturali esistenti a priori.
Uno dei corsi tenuti nel 1974-75 al College de France, in seguito pubblicato, aveva come titolo proprio Gli anormali.
“Questa quasi ricostruzione o pseudo ricostruzione della prova legale è visibile non solo nella ripresa di un’aritmetica delle prove, ma anche dal fatto che- contrariamente al principio dell’intimo convincimento, che vuole che tutte le prove possano essere addotte e riunite, e che solo la coscienza del giudice, giurato o magistrato, deve pesarle- alcune prove hanno, in se stesse, degli effetti di potere, dei valori dimostrativi che, indipendentemente dalla loro struttura razionale, sono più grandi degli altri. Ma se non hanno effetti in base alla struttura razionale, su che cosa si fonda il loro potere? Sul soggetto che le enuncia. È in questo modo, ad esempio, che i rapporti di polizia o le testimonianze dei poliziotti hanno, nel sistema della giustizia francese, così come attualmente viene amministrata, una sorta di privilegio nei confronti di ogni altro rapporto e testimonianza solo perché sono enunciati da un funzionario di polizia che ha prestato giuramento. D’altra parte, il rapporto dei periti, nella misura in cui lo statuto di esperti conferisce a coloro che lo stendono un valore o piuttosto uno statuto di scientificità, gode di un certo privilegio nei confronti di ogni altro elemento della dimostrazione giudiziaria. Non sono prove legali nel senso in cui, ancora verso la fine del XVIII secolo, le intendeva il diritto classico. Si tratta nondimeno di di enunciati giudiziari privilegiati che comportano presunzioni di verità inerenti loro per statuto ovvero in funzione dei locutori. Insomma, si tratta di enunciati con specifici effetti di verità e di potere; si tratta di enunciati cui, nella produzione della verità giudiziaria, viene conferita una sorta di sovra-legalità.” (Michel Foucault, Gli Anormali)
Insomma, uno degli effetti paradosso del discorso del soggetto presunto sapere.
Lo scopo ultimo di definire l’anormalità è sempre stato duplice.
In primo luogo un dispositivo del discorso volto a creare gruppi sociali marginali, più vulnerabili e meno garantiti, un dispositivo del discorso ovviamente ad uso e consumo dei gruppi di potere dominanti stessi, che usano il linguaggio come dispositivo di potere primario. Uno strumento di lotta di classe dall’alto verso il basso per continuare a mantenere controllo sociale, dominio pubblico e privilegi di classe.
Secondo scopo, non secondario, la costruzione di un perimetro di sicurezza e legittimazione identitaria volto a tutelare il sé da tutti quei dubbi e quelle angosce che da sempre attraversano le esistenze e le menti meno dogmatiche, che il dogmatismo è sempre stato l’argine eretto a protezione del dubbio e delle incertezze dell’esistenza umana. E dalle angosce sottostanti alla stessa.
Omologazione e conformismo sono strategie che socialmente e psicologicamente hanno storicamente avuto la funzione di costruire sicurezza secondo il canone prevalente del tempo e del contesto sociale relativo.
Come evidente, quote di potere sociale e sentimento soggettivo identitario si pongono sovente in un circolo virtuoso, rafforzandosi vicendevolmente. Che è tutto il contrario del circolo vizioso tra marginalità subita e vulnerabilità del senso di sé, quando non di disvalore soggettivo acquisito col latte materno, per tanti gruppi sociali nella storia.
La domanda che si impone è quale sia oggi il modello di norma a cui fare riferimento; meglio, a cui effettivamente la norma statistica nel senso di maggioranza fa riferimento, oltre che le qualità della stessa e le matrici culturali fondative della stessa.
In altri termini, qual è l’antropologia concreta di riferimento dei gruppi sociali attualmente dominanti? A quali valori reali fa riferimento nella elaborazione di uno stile di vita quotidiano? Come si è costruito il modello di normalità che permette di definire gli anormali? O, più semplicemente, quale modello di benessere viene promulgato e seguito negli stilemi della cultura contemporanea globale?
Questa probabilmente è la domanda più scomoda da porsi e da porre, per tutti. Quella a cui rispondere diventa molto difficile, probabilmente perché non soltanto non ci può essere una risposta generale e univoca, ma anche perché la crisi profonda generale verte sullo smarrimento di un modello di benessere sociale mediamente condiviso. E, semmai ve ne fosse stato bisogno, la guerra feroce scatenatasi negli ultimi due anni sul tema delle vaccinazioni lo dimostra. Come dimostra che il corpo è sempre più la frontiera difensiva di combattimento.
Ma mettendo momentaneamente tra parentesi questa questione, se guardiamo alla superficie del modello di benessere proposto attraverso il discorso pubblico, gli spot pubblicitari ma non soltanto, a partire dagli anni ottanta siamo dentro il modello della Milano da bere. Avere un buon lavoro, produrre un buon reddito, avere una vita sociale che prevalentemente si esplica all’ora dell’aperitivo dentro locali alla moda dove incontrare altri di condizione simile, chiacchierare amabilmente mentre si beve, mettendosi in mostra per farsi ammirare.
Una proposta di stile di vita che da prevalente sembra diventata una sorta di modello unico possibile. E che ovviamente fallisce in ogni modo.
Potremmo chiamarlo brutalmente il modello aperitivo o il modello Spritz, usando per condensazione la parte per il tutto, la cui adesione contribuisce a trasformare in partigiani della vanità, e non soltanto.
Come in un incubo distopico, l’ora dell’aperitivo si è espansa a dismisura, così come le pratiche ad essa connessa, l’iperconsumo vorace di tutto e l’esposizione in passerelle sempre più affollate e caotiche, fino a diventare l’asse portante di tante esistenze, senza grandi distinzioni di classe e di età in questo caso.
“Usciti dal locale, riprendemmo a chiacchierare. Vedevo le auto correre per strada.
<<Sentito come parlano?- disse Paolo prendendomi in disparte.- Fanno gli splendidi in gay street ma poi a Natale vanno a trovare i genitori al paesello e gli raccontano di essersi fatti la fidanzata a Roma. Qui tutti odiano tutti, e prima ancora odiano se stessi>>.
Paolo aveva la mia età. Veniva da un contesto diverso da quello in cui ci trovavamo adesso. Era uscito allo scoperto quando era un po’ più che un ragazzino, con fierezza e determinazione. Da adolescente avevo una grande ammirazione per quelli come lui, ragazzi che si tuffavano a occhi aperti nel mistero della propria sessualità e ne uscivano sfidando i pregiudizi della gente. Ragazzi di quindici, di sedici anni, ragazzi che amavano ragazzi e non temevano di amare anche uomini sempre più grandi. Era sempre una questione di desiderio, allora. (corsivo mio)
<<Non capisco il disprezzo verso Luca Varani >>, dissi.
<<Puro e semplice classismo, – fece Paolo, – ricordati che una parte della cultura omosessuale ormai è di destra >>.
<< Ma se votano tutti PD>>?
<< Confondono il culto del denaro con quello della bellezza. La bellezza per loro sono gli ottanta milioni di follower di Rihanna. Potere. Yacht. Vacanze ai Tropici. Chi non fa quella vita non è degno di esistere. Il problema è che i primi a non fare quella vita sono loro>>.
Pur non sapendo niente di Luca davano per scontato che si prostituisse, pensai, e nonostante questo fosse ininfluente sul piano morale rispetto all’accaduto, si sforzavano di attribuirgli un valore discriminante: usavano la riprovazione per nascondere la propria personale caccia al debole. A questo si aggiungeva il fatto che imputare l’omicidio alla prostituzione e non al caso li faceva sentire al sicuro. Non potrebbe accadere mai a me, pensavano.
Le auto intorno a noi formavano intanto uno sciame gigantesco, si dipartivano a raggiera da piazza Re di Roma e poi correvano sull’Appia, scendevano impetuose verso Cinecittà. I fari nel buio della notte, le luci degli stop. Ecco che lo sfacelo di Roma riacquistava all’improvviso una sua logica. Il cinismo si ribaltava nella fede, la noia diventava speranza, l’accidia svaniva nell’operosità. Era il percorso della coca, la bianca rete elettrica che avvolgeva la città. Quanto più le strade si svuotavano di senso, tanto più la coca le riempiva del proprio, spingeva fuori di casa impiegati, professionisti, studenti, operai, dirigenti, dentisti, netturbini, collegava tutto a tutti senza distinzione di razza, di sesso, di religione, di ceto, un formidabile collante sociale che portava persone che non l’avrebbero mai fatto a incontrarsi tra loro. Le costringeva a conoscersi, a parlarsi, a stringere legami di ogni tipo.
<<Vivendo in un mondo che in fondo ci disprezza, – stava dicendo Paolo,- noi gay abbiamo dovuto fare più fatica per costruirci una grammatica sentimentale. Ma in loro, – indicò gli altri ragazzi,- la mancanza di riferimenti è eclatante. La società offre centinaia di modelli vuoti, se vuoi sottrarti alla fatica bestiale di capire chi sei >>.
Il pelo dell’acqua, pensai, senza riuscire a vedere cosa ci fosse sotto.”
(Nicola Lagioia, La città dei vivi)

Due pagine o poco meno di questa opera ibrida, in parte reportage, in parte inchiesta, in parte romanzo; due pagine in cui Nicola Lagioia condensa descrittivamente una serie di temi che costituiscono la densità faticosa del quotidiano lavoro psicoterapeutico, come proveremo a descrivere ulteriormente. E che da subito ribalta però la questione della relazione tra presunta norma e presunta devianza.
Se questo è il macro contesto sociologico, dobbiamo provare a ragionare su quali sono le ricadute sulla nostra mente individuale e collettiva.

I primi giorni di giugno Serendipity ha organizzato a Palermo un grosso convegno sui disturbi di personalità, International Meeting on Personality Disorders, chiamando studiosi di chiara fama internazionale che da decenni si occupano del problema, da Kernberg alla McWilliams, da Gabbard a Lingiardi, Caretti, Schimmenti. Un’occasione preziosa per reincontrarsi in presenza intanto, oltre che uno spazio per fare il punto sullo stato dell’arte.
Uno degli assi portanti della ricerca internazionale attuale è quello che si occupa del rapporto tra trauma e dissociazione. C’è una grande riscoperta del lavoro di Pierre Janet da questo punto di vista, aggiornato ovviamente dal dialogo con la ricerca contemporanea in ambiti contigui, come ad esempio le neuro scienze e la psicofisiologia.
La relazione iniziale del convegno tenuta da Adriano Schimmenti verteva esattamente su questo, più specificamente sulla relazione tra trauma precoce e fenomeni dissociativi. Sulle varie forme di trauma e sulla molteplicità dei fenomeni dissociativi. Maltrattamento, perdita, trascuratezza, abuso psichico o fisico, sono le condizioni di esposizione al trauma, cui conseguono alterazioni profonde del funzionamento psichico, puntualmente oggi tracciabili nelle alterazioni delle mappe di attivazione cerebrale attraverso i processi di neuro-imaging. Le cicatrici psichiche sono meno visibili ad occhio nudo, ma non per questo non presenti.
Quando parliamo di sintomi dissociativi, facciamo comunque riferimento, aldilà della sintomatologia visibile, ad un restringimento della nostra capacità di coscienza. Cioè ad una mutilazione della nostra capacità di pensare i pensieri, per dirla più correttamente in termini psicodinamici utilizzando il linguaggio di Bion. C’è una relazione diretta tra trauma e capacità di abitare il pensiero, come si è sempre saputo più che ipotizzato, soltanto che oggi gli strumenti tecnici ci permettono di vederne le tracce biologiche.
Restano aperte due questioni fondamentali, dal mio punto di vista.
Quando parliamo di trauma precoce, quali sono le soglie che determinano le temporalità delle conseguenze dell’esposizione al trauma nelle varie fasi di vita?
Ovviamente non possiamo non pensare a quanto il sistema di cura parentale sia fondamentale per lo sviluppo della natura neotenica dell’essere umano, a quanto sia in gioco la sua stessa sopravvivenza fisica, oltre che psichica nel sistema di cura stesso.
Una delle scosse emotive molto forti che hanno attraversato questi giorni d’estate, non a caso, è stata la morte della bambina di meno di due anni lasciata per giorni in casa da sola dalla madre, che nel frattempo era andata a trascorrere dei giorni dal compagno.
A tutte le ricerche sulle relazioni tra gli stili di attaccamento e la psicopatologia, da Bolwby a Fonaghy, di cui nessuno nega la validità.
Però credo che oggi dobbiamo spingere lo sguardo un po’ ’ oltre, forzare un po’’ il modello, in un certo senso.
A partire da due considerazioni, che la condizione di vulnerabilità dell’essere umano si può attenuare nel corso del tempo e dello sviluppo soggettivo, ma non scomparire; che il più delle volte non è questione di esposizione a dei macro traumi, che pure accadono, piuttosto di una esposizione continua a una condizione di micro traumi, continua e ineludibile per lo più.
O che almeno riteniamo ineludibile.
Come affermato da Vincenzo Caretti nella relazione successiva allo stesso convegno, non bisogna sempre pensare al Disturbo Post traumatico da Stress, ai soldati reduci dal Vietnam, o condizioni analoghe estreme, o considerate tali.
Il più delle volte le nostre esistenze quotidiane sono relativamente al riparo da questo.
Ciononostante, nessuno è veramente al riparo, in un altro senso.
Perché il cosiddetto stress è una delle cifre costanti della contemporaneità, con tutte le sue conseguenze psico fisiche, a prescindere dai macro traumi.
Termine inglese derivato dal francese estrece, strettezza, oppressione, a sua volta derivato dal latino strictus stretto, come ci ricorda il vocabolario Treccani; termine usato in fisica per misurare lo sforzo in un corpo elastico in un sistema continuo. Come dire che la questione si pone sempre nel perseverare di determinate condizioni, più che nell’urto improvviso e violento.
Uno degli spot più famosi di Carosello resta quello del Cynar che aveva come slogan Contro il logorio della vita moderna, con Ernesto Calindri seduto a un tavolino a sorseggiare l’amaro mentre tutto attorno era un circolare di automobili. Che era pur sempre il traffico degli anni sessanta, nulla di paragonabile alla condizione delle strade quotidiane.
Modernità ha sempre coinciso con logorio. Ma oggi abitiamo una post modernità che ha ampliato molto i termini del logorio.
Un altro dei filoni di ricerca con grande rilevanza clinica è la ricerca psicofisiologica. Stephen W. Porges da anni si occupa delle risposte fisiologiche del corpo a determinate condizioni, in quella che è nota come teoria polivagale. Polivagale perché descrive un sistema gerarchicamente organizzato, strutturatosi nel corso dell’evoluzione: “tre sottosistemi funzionali che sono stati organizzati dall’azione della biologia evolutiva. …1) le vie vagali non mielinizzate che forniscono la regolazione vagale primaria degli organi al disotto del diaframma; 2) le vie vagali mielinizzate che forniscono la regolazione vagale primaria degli organi al di sopra del diaframma; 3) il sistema nervoso simpatico.”(Ibid.)
Cioè a tutte le attivazioni automatiche che l’organismo mette in atto, al di fuori di qualsiasi volontarietà, a fronte di percezione di pericolo, ad esempio.
“Il ruolo importante della “sicurezza“ nella nostra vita è così intuitivo e così rilevante che appare sorprendente che le nostre istituzioni lo ignorino. Forse, il nostro fraintendimento riguardo il ruolo della sicurezza si basa sull’assumere che pensiamo di conoscere cosa significhi “sicurezza”. Questa assunzione ha bisogno di essere messa alla prova, perché potrebbero esserci delle incongruenze tra le parole che usiamo per descrivere la sicurezza e le nostre sensazioni corporee di sicurezza.” (Stephen Porges, La guida alla teoria polivagale)
C’è quindi un rapporto preciso tra sensazione soggettiva di sicurezza e funzionamento corporeo, a partire dalla fisiologia.
In uno scritto precedente, Sull’infelicità indotta, si ragionava su come l’apprensione fosse una delle cifre prevalenti del malessere contemporaneo, ma anche su come tutto ciò avesse molto a che fare con i modelli di funzionamento sociale a cui tutti siamo in misura più o meno maggiore esposti.
Tornando quindi al rapporto tra trauma precoce e funzionamento mentale, forse dobbiamo seriamente cominciare a interrogarci sulla relazione tra una prolungata sensazione di insicurezza e risposte fisiologiche soggettive da un lato, ma anche sugli effetti di un sistema sociale più abusante che garantente sulle soggettività e sui nostri corpi.
Il mondo post moderno è complessivamente foriero di attaccamento insicuro, fuori da ogni metafora. Un ulteriore recente studio pubblicato su Nature ridefinisce anche la questione del rapporto tra alterazioni del sistema serotonigergico e depressione. Come l’evidenza clinica ci ha mostrato da tanto tempo, l’alterazione del livello di serotonina è un effetto piuttosto che una causa a priori. Un effetto di condizioni di esistenza difficilmente sostenibili, per lo più. È di vita che ci si ammala, quando la vita diventa sfruttamento continuo, sentimento di impotenza, compiti inesauribili, valutazioni minacciose costanti, barcamenarsi tra le deprivazioni derivate dalle diverse povertà.
Molto di ciò nulla ha a che fare con condizioni di natura, è soltanto frutto di scelte economiche e politiche dei gruppi dominanti al momento.

Qual è la cifra predominante dei cosiddetti disturbi psicologici. Tutti i sistemi diagnostici vanno sempre più orientandosi in direzione delle differenze di struttura di personalità. Anche il DSM 5 abbandona l’impostazione multi assiale descrittiva precedente e ragiona per organizzazione di personalità, prevalentemente. Sarebbe perciò interessante provare a definire cosa intendiamo per personalità sana. Freud la identificava con la capacità di lavorare e di amare. Gadamer nel testo Dove si nasconde la salute sostanzialmente ne offre una visione in negativo, come assenza di sintomi particolari di sofferenza. Lacan la fa coincidere con l’accettazione della castrazione. Dal punto di vista analitico, coincide sostanzialmente con la capacità di soffrire e di godere, cioè di essere sufficientemente attrezzati a contenere mentalmente una vasta gamma di vissuti e di emozioni.
E non c’è dubbio che tutte queste caratteristiche contribuiscano a orientare una personalità che potremmo definire sufficientemente sana.
Personalmente continuo a ritenere che un ruolo fondamentale lo rivesta il mantenimento di una soggettiva relazione con il desiderio, ancora più con il desiderare.
Uno degli aspetti più perturbanti nel lavoro terapeutico consiste nell’incontro con il crollo delle strutture desideranti, che sempre più soggetti sembra abitare.
Troppo, anche qui, per poterlo ritenere soltanto un fenomeno individuale.
A volte facciamo fatica a cogliere questo tratto, perché il più delle volte camuffato quasi nel suo opposto, in una sorta di brama insaziabile che non riesce a placarsi; brama di esperienze, brama di sostanze, brama di consumo compulsivo e continuo. Tutta l’ideologia vitalistica da rotocalco e da reality show che trova l’incarnazione perfetta e tragica nel rituale del consumatore di cocaina. Che è ben diversa da come la si rappresenta, fatta come è di profondo isolamento e disperata e fallimentare ricerca di contatto erotico. La vicenda di Luca Varani, Marco Prato e Manuel Foffo raccontata da Nicola Lagioia ne La città dei vivi è eccezionale, fortunatamente, soltanto nel suo tragico esito. Non nel suo rituale, che è molto più frequente di quanto ci possa rassicurare pensare. Un rituale che prevede consumi alternati di coca e alcol potenzialmente senza un limite, con le due sostanze a bilanciare reciprocamente gli effetti l’una dell’altra e mantenere la bolla, 12 ore, 24 ore, 36 ore, 48 ore.
O come in un certo modo di utilizzare l’alcol, dove l’obiettivo ultimo è lo sfiorare il coma alcolico, da cui riprendersi utilizzando la cocaina.
Non è tanto in questione l’uso di sostanze, ovviamente. Neppure l’abuso in un certo senso. Quello che interroga è il senso di questa dismisura programmata e perseguita. Che poco o nulla ha a che fare con il piacere, ancor meno col desiderio, come sempre emerge dalle narrazioni dei soggetti in questione. E anche il sesso è catturato dentro questo schema di consumo dal paradosso parkinsoniano. Una iperattivazione finalizzata alla paralisi e allo spegnimento.
Se seguiamo le tracce del cambiamento dell’uso di sostanze dagli anni settanta ad oggi, possiamo avere un indicatore formidabile e tremendo di quella che Pasolini preconizzava come la mutazione antropologica in corso, prima del suo assassinio, proprio mentre era impegnato a completare Saló o le 120 giornate di Sodoma, il primo film del nuovo ciclo che avrebbe dovuto comporre la trilogia della morte, dopo che smarrito era il desiderio e la capacità di desiderare.
Non soltanto quindi del cambiamento profondo della condizione sottostante la medesima condizione psicopatologica, la tossicodipendenza.
I tanti testi che oggi ci riportano agli anni settanta, quando la tossicodipendenza diventa di colpo un fenomeno di massa, descrivono un mondo totalmente diverso e storie soggettive sono portatrici di temi poco raffrontabili all’attuale.
Tra il mondo descritto, ad esempio, da Vanessa Roghi in Piccola Città e quello raccontato da Nicola Lagioia ne La Città dei Vivi non esistono molti termini di raffronto. Il punto è che non soltanto sono cambiati i contesti sociali, ma che l’humus culturale di riferimento dentro cui alligna la sintomatologia è incommensurabile. È questo è fondamentale per chi professionalmente si occupa di terapia e di cura. C’è sempre una parte invariante nella struttura psicopatologica, che è sostanzialmente la struttura sintomatologica stessa. Assuefazione, compulsione, restringimento progressivo dello spazio vitale sempre più risucchiato dal sintomo stesso, l’alternanza crudele tra remissione e recidiva; poco è cambiato tra il tossicodipendente da eroina degli anni settanta e il poli consumatore degli ultimi anni nelle strutture esterne dell’impalcatura sintomatica.
Ciò che sembra, o che è a mio avviso, profondamente diverso sono i vissuti e le aspirazioni di fondo. Oltre che il contesto dove tutto si determina.
Un dato fondamentale, naturalmente, è che prima della fine degli anni settanta non esisteva un mercato locale disponibile per il consumatore. Per questo le esperienze con le sostanze coincidevano sovente con l’esperienza del viaggio.
On the road. Ci si metteva in strada per andare incontro al nuovo, all’imprevisto, alla conoscenza. Amsterdam, Marocco, Sudamerica o Oriente che fosse, c’era un altrove da andare ad esplorare, e attraverso questo incontrare parti di sé altrettanto ignote.
Non soltanto Kerouac, ma anche, soprattutto, Castaneda col suo Don Juan.
Bello o brutto che fosse, questo è stato l’immaginario di riferimento fino ad una certa fase dell’utilizzatore di sostanze. Onnipotente e ingenuo, probabilmente, ma certamente non scevro di desiderio, tutt’altro.
L’arrivo repentino e violento del mercato e della immediata disponibilità di sostanze, ha certamente cambiato il senso nel profondo dell’utilizzo stesso.
Naturalmente non sapremo mai del tutto chi e perché ha deciso che quello era il momento di inondare le strade italiane di eroina, se sia stata soltanto la strategia commerciale di Cosa Nostra, o se Cosa Nostra sia stata incentivata da un sistema di potere in profonda crisi.
Tornando però alla questione del desiderio, poco sembra incarnarsi oggi nell’utilizzo delle sostanze stesse e nelle modalità in voga.
Piuttosto, tanta frenesia somiglia molto a una strategia di evitamento.
Opposta e complementare alla strategia di evitamento che passa per le differenti forme di ritiro sociale. Che il disturbo evitante di personalità è probabilmente la cifra più emblematica del sociale in questa fase.
Con delle configurazioni particolari che rischiano di essere abbastanza insidiose nel lavoro terapeutico, perché spesso equivocabili con degli stati depressivi.
Peccato che siano molto spesso abbastanza refrattari al trattamento sia di un certo tipo di psicoterapia, ma anche ai trattamenti farmacologici.
Quello che rende particolarmente insidioso il lavoro terapeutico con questa classe di situazioni è che la struttura sintomatologica prevalente è una struttura depressiva, con anedonia, umore abbastanza scuro, grande difficoltà ad intraprendere a volte anche i piccoli gesti di cura quotidiani. Il punto focale della questione però si pone nel fatto che il vissuto depressivo è reattivo ad una grande difficoltà nella gestione del quotidiano e non viceversa. Il caso classico è quello del blocco improvviso negli studi, ad esempio.
Sono molto frequenti oggi questi blocchi. Carriere scolastiche brillanti, poi ad un certo punto, cominciare a preparare l’ennesimo esame viene vissuto come se fosse una fatica insostenibile. Spesso molto vicino al traguardo della laurea. A volte addirittura è la tesi a diventare una montagna da scalare, o un tirocinio. Si comincia a rimandare, ci si dice che è un momento di affaticamento, che occorre recuperare energie. Il punto però è che il tempo che trascorre non restituisce energie, sembra al contrario sempre più logorarle, e pian piano una sorta di melassa indistinta comincia ad assorbire le giornate. E sempre più i piccoli automatici gesti quotidiani cominciano a diventare estremamente faticosi anche soltanto ad immaginarli. Poi d’improvviso ci si accorge che sono passati molti, troppi, mesi, se non anni.
Naturalmente non stiamo parlando di blocchi che vengono ad essere determinati da avvenimenti traumatici, il più delle volte. Nulla che sia visibile almeno.
Le descrizioni delle giornate sono abbastanza simili, quando si pone la domanda di come si trascorre il tempo quotidiano. C’è sempre come un momento di smarrimento all’udire questa apparentemente banale domanda.
Come se occorresse mettere a fuoco qualcosa. Poi, il più delle volte la risposta è che il tempo passa davanti uno schermo, dentro un device.
Adesso, in un modo o nell’altro, tanti passano, passiamo, ore dentro un device, dato che sempre più l’esistenza sembra essersi trasferita online. È la qualità del modo che però diventa peculiare, perché il tempo dentro un device non è occupato da qualcosa di specifico o peculiare. È piuttosto un tempo infinito trascorso a scrollare, di scorrere qualcosa senza soffermarsi su nulla di particolare, come fare zapping per un tempo indeterminato. Una sorta di compulsione senza intenzione verso un particolare oggetto di attenzione.
A volte la compulsione può avere un oggetto, ad esempio un gioco come Fortnite. Che ha una struttura molto differente dai videogiochi classici, molto basato su un tempo breve e una continua ripetizione di una analoga situazione piuttosto che su una lenta evoluzione di trama. Un po’ come la struttura dei social network, senza un inizio e senza una fine, costruiti per caderci dentro. Per di più rassicurati da una routine. Fin quando almeno non ci si rende conto che la stessa routine sta sostituendo l’originario progetto di vita, che il tempo trascorre, che ciò che si desidera, o che si credeva di desiderare, sembra allontanarsi sempre più. Però mancano le energie per interrompere la routine diventata prigione. A volte tutto questo stato può essere accompagnato da un uso di sostanze, a volte no. Quello che è certo è che ad un dato momento comincia il disagio con se stessi e con la situazione, di cui ci si sente totalmente in balia. Ed è lì che intervengono i vissuti di inadeguatezza, di depressione e si costruisce un pesante circolo vizioso.
Ovviamente la domanda di fondo è da quali matrici tutto ciò origina, soggettive e sociali.
Queste forme di ritiro sociale non appaiono necessariamente estreme ad uno sguardo esterno, se non nel corso del tempo, a volte molto lungo però. Non hanno la radicalità visibile del preadolescente chiuso nella sua camera. Anche perché una delle caratteristiche principali delle strategie evitanti è quella di ripararsi dietro buone razionalizzazioni, buone dal punto di vista formale ovviamente.
Ed anche in terapia le razionalizzazioni costituiscono le principali insidie, che depistano e portano fuori strada dall’individuazione dei nodi cruciali.
Cosa si evita però? Ad un livello di superficie, la fatica, appunto, e il rischio. Rischio di fallire, di non riuscire, di essere giudicati, di giudicarsi, di ottenere qualcosa ma poi dover essere all’altezza di quel qualcosa, insomma tutta una complessa gamma che molto ha a che fare con tutte le bubole della cultura della performance, della pseudo meritocrazia, con il rischio concreto, in questo mondo feroce di intollerabili e insanabili ferite narcisistiche. A proposito di sentimento di sicurezza di cui parla Porges.
“Il mio percorso, che portò alla concettualizzazione della teoria polivagale, è concretamente inserito all’interno delle richieste pragmatiche delle istituzioni accademiche a cui appartenevo. Le università non sono strutturate per fare sentire il personale universitario sicuro e tranquillo. Le università funzionano sistematicamente attraverso un modello valutativo chiaro ed obiettivo, le idee e gli articoli vengono continuamente esaminati. I modelli valutativi, quando applicati in maniera cronica, spostano lo stato fisiologico verso il sistema di difesa. Gli stati fisiologici che supportano il sistema di difesa sono incompatibili con quelli che supportano la creatività e le teorie innovative.” (Ibid.)
La soluzione paradosso trovata inconsciamente è restare sdraiato a terra per non rischiare di cadere, o qualcosa di analogo.
Non sembra molto azzardato ipotizzare che a livello di processo dinamico inconscio la questione si ponga in un conflitto paralizzante tra il desiderio e la paura del desiderio stesso, che elicita l’anestesia del desiderare come soluzione di compromesso possibile.
Questi sono alcuni degli elementi prevalenti riscontrati nelle tante storie partecipate quotidianamente nell’esperienza clinica.
Come se fossimo tutti dentro un sentimento di perdita di un mondo che valga la pena abitare, di cui prendersi cura, cui affidarsi per ricevere cure e attenzione.
La crisi della politica, della fiducia dei saperi sulla polis e della cura della stessa, la non partecipazione e il disincanto, o l’uso meramente utilitaristico della stessa, è la summa e il sintomo primario di questo sentimento di sradicamento dalla fiducia nella nostra capacità creativa.
È qualcosa di più radicale della crisi delle ideologie questo smarrimento. È come se la consapevolezza della scala del livello di complessità dei problemi non più differibili, vedi la cosiddetta crisi climatica, e delle trasformazioni profonde necessarie per gestirle e contenerle agisse in profondità sul corpo psiche, paralizzando.
Alcuni giorni fa, le notizie di cronaca riferivano della morte “dell’uomo più solo al mondo”. Un indio della foresta amazzonica, appartenente a una tribù isolata, i cui ultimi membri erano stati sterminati da alcuni anni dai predatori umani delle risorse del loro territorio, allevatori e cercatori d’oro.
Un sopravvissuto, che per molti anni ha condotto la propria esistenza dentro la foresta senza contatti con altri esseri umani.
Ciononostante, all’approssimarsi della sua morte, sembra si sia preparato un giaciglio adorno di piume.
C’è molto da dubitare sul presunto senso di solitudine di questo essere umano. Perfettamente accoppiato col suo ambiente, in armonia con esso fisicamente e spiritualmente, totalmente dentro una antica sapienza che gli ha permesso di sopravvivere fisicamente e spiritualmente.
Nulla di comparabile con il senso di solitudine che spesso può abitare mediamente noi iperconnessi.
Abitati dalla nostalgia del margine e delle comunità resistenti che si creano nelle marginalità sociali quando, da subite, divengono scelte e costruite.
Qualcosa, un sentimento, rintracciabile in questi racconti:
“Da bambina, il viaggio di attraversamento della città per raggiungere la casa della nonna era un esperienza tra le più eccitanti. A mamma non piaceva rimanerci troppo a lungo. Non le interessavano quelle chiacchiere a voce alta, tutti quei discorsi sui bei tempi andati, su come si viveva in passato- chi aveva sposato chi, come e quando il tal’altro era morto, ma anche come vivevamo e sopravvivevamo noi neri, come ci trattavano i bianchi. Ricordo quel viaggio non solo per via dei ricordi che mi capitava di ascoltare. Grazie ad esso mi lasciavo alle spalle la nostra segregata comunità nera per entrare in un quartiere di bianchi poveri. Ricordo il timore, la paura di andare da Baba (a casa di nostra nonna), perché per arrivarci dovevamo superare quel terrificante biancore- quelle facce bianche che dalle verande ci guardavano dall’alto in basso con odio. Anche quando erano vuote o abbandonate, quelle verande sembravano dire <<pericolo >>, <<tornate a casa vostra >>, <<non siete al sicuro >>.
Oh, che sensazione di sicurezza, approdo, ritorno a casa, quando finalmente raggiungevamo i confini del suo cortile, quando ci appariva il viso nero e fuligginoso del nonno, Daddy Gus, seduto nella sua seggiola in veranda, e potevamo sentire il suo odore di sigaro e accoccolarci tra le sue braccia. Che contrasto! Da un lato la sensazione di essere arrivati, di essere finalmente a casa, la dolcezza e, dall‘altro l’amarezza del viaggio, il richiamo costante al potere e al controllo dei bianchi.
Ne parlo come un viaggio per raggiungere la casa della nonna, eppure ci abitava anche il nonno. Nelle nostre giovani menti, le case appartenevano alle donne, ne erano il dominio specifico, non perché esse ne fossero le padrone, ma perché era dentro le case che si produceva tutto ciò che conta nella vita- il calore e la pace di un luogo dove sentirsi al sicuro, cibo per i nostri corpi, nutrimento per le nostre anime. È lì che abbiamo imparato a stare al mondo con dignità, con integrità; è lì che abbiamo imparato ad avere fede. A renderci possibile questa vita, facendoci da guida e da maestre, sono state le donne nere.” (Bell Hooks, Elogio del margine)
O anche in quest’altro:
“L’arbusto che ho sempre amato di più, che ho talmente amato che mi riesce in certi momenti, quando è piegato, e lascia ricadere sorridendo i suoi fiori rosa e confusi, quasi impossibile non credere che sono qualcuno di speciale per lui come lui è qualcuno di speciale per me; è un pezzo che lo amo e già quando ero piccolo prendevano in giro questa mia passione per un fiore amato. Quando mi ammalai così gravemente la prima gioia della mia convalescenza fu la visita di una cugina che amavo, che non avrei mai creduto sarebbe venuta a casa, e un grande ramo di biancospino che mi portò. Era l’ornamento meraviglioso dell’altare e qualcosa che nei sentieri, alla grazia divina e profumata del biancospino che adoravo aggiungeva colore, lo stesso colore dei biscotti rosa di Tours che venivano tirati fuori dalla scatola dopo colazione nei giorni di grande privilegio, o del formaggio cremoso quando ci venivano schiacciate dentro delle fragole. Vedere il mio caro biancospino, l’incanto della chiesa e della primavera, dipinto di rosa era per me l’ebbrezza che è per l’amante una sinfonia di Beethoven, che egli conosce soltanto per averla letta, sentirla suonata da un‘orchestra , o per colui che va matto, per averlo visto solo in foto, per un quadro di Veermer di Delft, vederlo in tutti i suoi colori. Ancora oggi quando penso che ci sono dei sentieri in cui c’è del biancospino rosa, questi mi sembrano fatti di una sostanza speciale simile al sogno, mi sembra che se il mio triste stato di salute non mi impedisse di andarci a passeggiare, tornerei indietro ai miei undici anni e tante cose che mi appaiono del colore insignificante dell’esperienza ridiventerebbero ai miei occhi belle, misteriose, simili a quella realtà divina che toccavamo con mano allora, che non abbiamo più trovato nella nostra vita e che cerchiamo dunque così faticosamente più avanti, quando siamo artisti, di scoprire e di chiarire nella nostra mente.” (Marcel Proust, I 75 fogli)

Bibliografia

Bell Hooks, Maria Nadotti Elogio del margine Scrivere nel buio
Tamu edizione 2021

Michel Foucault Gli Anormali
Feltrinelli 2010

Nicola Lagioia La città dei vivi
Einaudi 2020

Stephen W. Porges La guida alla teoria polivagale. Il potere trasformativo della sensazione di sicurezza
Giovanni Fioriti Editore 2018

Marcel Proust I 75 fogli
La nave di Teseo 2022

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