Dalla negazione al riconoscimento di sé: l’evoluzione di una breve relazione psicoterapeutica
Esperienze cliniche | Novembre 2022
Autore: Giuseppe Marullo

Presenterò un caso di un giovane che ho seguito individualmente per circa dieci mesi presso il Centro per la Psicopatologia dell’Adolescenza dell’ASP di Catania.
Il giovane, che chiamerò, Alessio, con un nome fittizio, è stato inviato dalla Direzione di un Istituto Penale per Minorenni (IPM) della Sicilia per effettuare un percorso psicologico, come previsto per gli autori di reati sessuali.
Alessio entra in un Istituto Penale per Minorenni (IPM) della Sicilia nel luglio del 2017, quando aveva 21 anni, con una condanna a cinque anni di reclusione per il reato di cui agli art.81(reato continuato), 609 bis e ter c.p.: “chiunque con violenza o minaccia o mediante abusi di autorità costringe taluno a compiere o subire atti sessuali è punito con la reclusione da sei a dodici anni; la pena è raddoppiata se i fatti di cui all’art. 609 bis sono commessi nei confronti di persona che non ha compiuto gli anni dieci”(C.P. 2019)
Il reato è avvenuto nel 2010, quando l’autore aveva 15 anni e la vittima 9 anni.
Alessio appartiene ad una famiglia di immigrati composta dai genitori e da quattro figli (di cui Alessio è il primogenito) che si è ben integrata dal punto di vista sociale e lavorativo nel nostro paese.
Al primo/secondo colloquio Alessio racconta che si trovava ospite di una famiglia poiché i suoi genitori risiedevano in una località dove gli veniva difficoltoso raggiungere l’istituto di scuola media-superiore ove si era iscritto. Racconta la storia di quegli anni ed anche di alcuni approcci sessuali con la signora che lo ospitava, madre del ragazzino vittima della violenza, affermando che non sa perché la donna lo abbia denunciato.
Gli ho restituito che vi sono dei segni post-traumatici per i quali non si può mentire. Osservo in Alessio imbarazzo e silenzi, ma alla fine riferisce di non comprendere questa vicenda penale, ipotizzando che la madre del ragazzino si sarebbe vendicata attraverso la denuncia.
Al terzo/quarto incontro Alessio continua a descriversi ed afferma di essere deluso, di provare dolore, rabbia ed ansia per aver avuto negato, dal Magistrato di Sorveglianza del Tribunale per i Minorenni, alcuni benefici previsti dall’ordinamento penitenziario, nonostante la sua “esemplare detenzione”.
Al quinto/sesto incontro Alessio continua a dire che si trova in IPM per le congetture della madre del ragazzino, la quale viene descritta come persona disturbata ed alcolista.
Negare per auto-proteggersi poiché è troppo doloroso ammettere: come afferma la prof.ssa G. Zara (2018), il diniego pare avere un’utilità protettiva, è un rifiuto a riconoscere esperienze penose.
Il giovane, in alcuni passaggi, afferma: “io non sono stato; o è stato un altro o se sono stato io, non lo ricordo”. Lo sostengo nel suo diniego e gli restituisco che tali affermazioni nascono probabilmente da suoi vissuti confusivi e dolorosi e non da una sua indisponibilità a riconoscere eventuali responsabilità nel reato.
Quando pensa alla tipologia di reato teme che possa “uscire allo scoperto” non perché lo abbia commesso, ma perché all’interno dell’IPM possa diffondersi la notizia di essere accusato di un reato così infamante. Lavoriamo sull’immagine di sé e su quella che gli altri hanno di lui: lo conoscono in un modo e sarebbe per lui devastante che gli altri acquisiscano una nuova immagine di lui.
Non potendo lavorare sui comportamenti/reato, ci soffermiamo su “chi sono io oggi”, sulla regolazione emotiva, sulla tensione a mantenere il segreto di un reato che non ritiene di aver commesso; a volte non sa se è meglio narrare il suo passato o pensare al suo futuro.
Dopo il sesto colloquio ho comunicato al giovane che avrei scritto al giudice per informarlo che sta seguendo un percorso psicologico presso il Centro per la psicopatologia dell’adolescenza dell’ASP e che sta utilizzando tale opportunità per una più chiara conoscenza di sé e per comprendere alcuni vissuti soggettivi.
Ho, inoltre, aggiunto che, nella suddetta relazione, avrei fatto cenno alla sua modalità denegante e cioè alla negazione dei fatti e delle responsabilità nel reato, aspetto che, in occasione di qualche incontro, mi ha fatto introdurre il tema del diniego nei sex offender, quale caratteristica ricorrente.
Il dare parola ad alcuni suoi vissuti che hanno accompagnato la detenzione ed in particolare all’immagine di sé in relazione al reato per il quale sente di essere stato ingiustamente condannato, il racconto della quotidianità in IPM e delle relative opportunità educative ha consentito ad Alessio di dare significato a ciò che sino a quel momento sembrava rispondere maggiormente al “modulo del fare” e di soffermarsi su un “sentire” che sembrava trovare un sua seppur stentata dicibilità ed un canale comunicativo.
Alessio ha pian piano acquisito nei confronti dello psicoterapeuta la fiducia necessaria per parlare della sua esperienza detentiva, per esprimere le proprie inquietudini, ma anche alcune sue gratificazioni.
La gioia espressa dal giovane (aveva negli occhi una luce diversa) dopo la concessione del suo primo permesso-premio per recarsi dai suoi familiari (dopo circa due mesi dall’inizio del percorso psicologico) ha restituito allo stesso la dimensione della “speranza” e la possibilità di elaborare una nuova rappresentazione di sé.
Il segreto mantenuto in IPM rispetto alla condanna per il reato di violenza sessuale, ha spinto Alessio ad affrontare, nello spazio-tempo psicologico, le proprie ansie, la fatica e l’investimento di energie nel non lasciare trapelare, nelle relazioni con gli altri detenuti, il vero reato per il quale era stato condannato; in questa fase, egli sembrava vivere una “scissione” tra il reato contestatogli e la relativa condanna inflittagli, nella consapevolezza di esercitare, in tal senso, un iper-controllo rispetto ad alcuni contenuti comunicativi.
All’interno del percorso psicologico, tuttavia, l’iniziale atteggiamento denegante del giovane ha lasciato spazio all’acquisizione di alcune consapevolezze: comprensione di alcune dinamiche che mantenevano tali sue difese/resistenze e gli effetti che gli avevano provocato dal punto di vista razionale ed emotivo.
Pertanto Alessio, al quattordicesimo incontro, con estrema difficoltà, rassicurato dal clima di fiducia instaurato nel corso delle sedute precedenti, è riuscito a dare parola al segreto che aveva mantenuto negli anni, riconoscendo le proprie responsabilità nella messa in atto del reato di violenza sessuale, per il quale stava scontando la condanna.
Dal racconto del giovane emerge che, i vissuti traumatici, i vuoti e la confusività affettiva esperiti nella sua infanzia, sono stati riattivati nel periodo adolescenziale e agiti come conseguenza dell’abuso, a sua volta, da lui subito all’età di 7 anni da parte di un parente. Pertanto, i sentimenti di indegnità, di autosqualifica e di confusività sulla propria identità sessuale in piena fase adolescenziale, hanno spinto Alessio, attraverso il reato, ad agire in modo da sentire meno, probabilmente, il peso della propria sofferenza psicologica.
All’interno del percorso psicologico, il giovane ha iniziato a dare significato ai propri comportamenti ed a comprenderne più profondamente il ground sottostante, mostrando una maggior dinamicità e dando una collocazione temporale e contestuale a quanto accaduto.
Gran parte degli incontri successivi con Alessio sono stati caratterizzati dall’elaborazione dell’esperienza traumatica da lui vissuta come vittima di violenza sessuale, della percezione di sé e del mondo in quel periodo, nonchè della modalità relazionale messa, a sua volta, successivamente in atto su una giovane vittima, verso la quale Alessio sembrava mostrare sensibilità e sentimenti di empatia. In tal senso, il riconoscimento delle proprie responsabilità anche attraverso l’identificazione empatica con la giovane vittima, ha reso possibile l’avvio di un lavoro psicologico più profondo.
L’attacco ai confini fisici, mentali ed emotivi nell’infanzia di Alessio, ha generato in lui un indebolimento del sé e l’immagine di un corpo segnato da pesanti “cicatrici” rimarginabili, nella sua elaborazione adolescenziale, attraverso la “messa in scena” della relazione patologica dell’infanzia (M.Malacrea 2011).
Il lavoro psicoterapeutico svolto ha favorito l’elaborazione e la ri-costruzione di alcuni vissuti emotivi e momenti di vita del giovane, nel tentativo di entrare in contatto ed integrare alcuni aspetti di sé in un tutto più armonico (G. Salonia 1992).
Il giovane, desideroso di riconquistare la sua libertà, inizia ad esprimere una progettualità per il suo futuro.
Il lavoro inter-istituzionale (servizi sanitari/servizi della giustizia minorile) e la possibilità per il giovane di fruire di uno spazio d’ascolto esterno all’IPM (si recava presso il servizio dell’ASP attraverso brevi permessi-premio autorizzati dal Magistrato di Sorveglianza) ha favorito l’apertura di Alessio verso una nuova dimensione che gli ha fatto cogliere l’offerta d’aiuto lontana da pressioni istituzionali interne o esterne al carcere e che ha cercato di coniugare la tutela della salute dell’autore di reato con i principi del processo penale minorile (DPR 448/88).
Come afferma T. Demetrio (2000), l’accompagnamento educativo diventa efficace e rassicurante quando impara la difficile arte di rispettare i tempi dell’altro, le sue tortuosità, il suo errore o i lenti percorsi di cambiamento.
Lo stesso giovane diceva che pur di ottenere i benefici previsti dall’ordinamento penitenziario, avrebbe potuto confessare, sin dalla prima fase detentiva, le proprie responsabilità. Tuttavia, ciò avrebbe dovuto fare i conti con quanto da egli stesso subito e, pertanto, con un segreto personale incomunicabile agli altri.
I suoi dolorosi vissuti traumatici familiari e di sofferenza psicologica sono stati rimuginati, taciuti ed alimentati da una carica emotiva che, sino a quel momento, non aveva trovato un canale comunicativo nella relazione interpersonale.
E’ proprio vero che la psicoterapia è l’arte del “come” e “quando” dire, e ciò vale sia per il terapeuta che crea il clima e prepara il terreno sia per il paziente che sente il senso della sua integrità, che non sempre coincide, nell’immediato, con lo star bene (G. Salonia 2011).
Dopo poco meno di un anno dalla presa in carico da parte dello psicologo e complessivi tre anni di detenzione, Alessio sembra avere una più idonea consapevolezza di sé e del mondo circostante, confermato ciò anche dai suoi sforzi elaborativi, i quali hanno avuto un produttivo riscontro attraverso la concessione, da parte del Magistrato di Sorveglianza, della misura penale di comunità dell’“affidamento in prova al servizio sociale”; il giovane ha pertanto fatto rientro in famiglia per il residuo di pena da scontare, ai sensi del decreto legislativo 2 ottobre 2018 n. 121.
L’integrazione inter-istituzionale e delle varie figure professionali che hanno creato una comunicazione circolare attraverso incontri d’équipe, ha sicuramente facilitato il giovane a rimodulare/ridefinire oggetti interni/esterni, scene, sensazioni che hanno contribuito al “riconoscimento di sé” all’interno del complessivo percorso psicoterapeutico e di reintegrazione sociale.

Bibliografia
Alibrandi L. Corso P. (a cura di) (2019), Codice penale e di procedura penale e leggi complementari. La Tribuna
Demetrio D (1996), L’autobiografia come cura di sé. Raffaello Cortina Editore
Malacrea M. (2011), Il trauma dell’abuso e il delicato processo della riparazione: come ridare voce e corpo al bambino violato, in Quaderni di Gestalt volume XXIV – 2011/1
Salonia G. (2011), Sulla felicità e dintorni. Tra corpo parola e tempo. Il pozzo di Giacobbe
Salonia G. (1992), Tempo e relazione. L’intenzionalità relazionale come orizzonte ermeneutico della Gestalt Terapia, in Quaderni di Gestalt n.14.
Zara G. (2018), Il diniego nei sex offender: dalla valutazione al trattamento. Raffaello Cortina Editore