Quando all’esordio del nuovo millennio Gustavo Pietropolli Charmet pubblicava I Nuovi Adolescenti, il testo riscuoteva un ampio interesse. Due erano le tesi principali che nel testo si avanzavano, che inducevano a parlare di nuovi adolescenti. La prima riguardava la strutturazione del sé, e il processo differente attraverso cui tale strutturazione avveniva. “Gli adolescenti, a mio avviso, quando parlano della loro vita e delle loro relazioni utilizzano un modello narrativo parafrasabile in termini semiotici. Si sforzano cioè di descrivere il conflitto non in termini verticali, non hanno cioè in mente la metafora freudiana dell’Io, Es, Super-io: a loro generalmente non sembra che la guerra interiore sia tra istanze etiche e spinte pulsionali e perciò non descrivono il conflitto in termini gerarchici, bensì utilizzano una concezione orizzontale. Il conflitto è tra parti o istanze che hanno per così dire pari dignità, ognuna delle quali rappresenta valori e bisogni legittimi ma che sono in conflitto con quelli sostenuti da altre istanze, strutture o, se si vuole, da altri Sé.” Ad esempio il bisogno di appartenenza al gruppo confligge con il bisogno di appartenenza e partecipazione al rapporto esclusivo di coppia.
La seconda riguardava le trasformazioni avvenute negli stili educativi familiari, il passaggio cioè dalla famiglia etica alla famiglia affettiva, per usare il linguaggio dell’autore. Certamente questo è il punto su cui in questi decenni si è molto continuato a dibattere e a ragionare. Uno dei cardini di questo ragionamento riguarda la trasformazione, in particolare, del ruolo paterno. Ancor prima dei lavori di Recalcati, in particolare de L’uomo senza inconscio, Pietropolli Charmet poneva l’accento sulla maternizzazione del ruolo paterno. Tale maternizzazione era legata alla storia generazionale di quei padri, figli di quelle generazioni che si erano duramente contrapposte ai modelli paterni autoritari che avevano caratterizzato le generazioni precedenti, quindi al bisogno di trovare nuovi codici che esprimessero la funzione paterna stessa. Pochi anni dopo, nel 2003, un altro testo radicalizzava ancor più questa visione dei cambiamenti in corso nei ruoli e le funzioni familiari e delle conseguenze su bambini e adolescenti. Scritto da un pedopsichiatra francese, Daniel Marcelli, edito in Italia con il titolo emblematico de Il bambino sovrano. La domanda che mi pongo è se e quanto, a distanza di due decenni o poco più, questi ragionamenti sui nuovi adolescenti siano ancora utilizzabili per comprendere clinicamente il malessere che attraversa le nuove generazioni. Considerando anche che i nuovi adolescenti di inizio millennio, presumibilmente sono i padri e le madri di oggi. Dal lavoro clinico con i giovani adulti, è abbastanza possibile dedurre che tutta la complessità di strutturazione di una immagine integrata del sé è un compito sempre più arduo, che i conflitti orizzontali tra le varie istanze di sé non conciliabili risuonino molto duramente nelle interiorità di molti. Meno chiaro è forse che stili genitoriali abbiano formato le famiglie affettive e quali ricadute questo abbia sui vissuti degli adolescenti contemporanei. La sensazione è che prevalga il caos polarizzato tra tentativi di restaurazione ideologica della famiglia etica e quello della famiglia affettiva, con oscillazioni sofferte sia dai genitori che dai figli. Ma ancora più prevale la sensazione che la partita non si giochi affatto tra le mura domestiche, non più, non soltanto, non in modo prevalente. Che le matrici profonde del benessere possibile o dell’ infelicità siano riposte altrove. Perché nel frattempo il mondo è cambiato in modo radicale, da tanti punti di vista. Il cambiamento più vistoso ovviamente riguarda quello tecnologico. Nativi digitali è stata la definizione che ha accompagnato i nati in questi primi decenni del nuovo millennio. La generazione che probabilmente ha imparato più parole da una macchina che dai propri genitori, come dice Bifo. Con quali ricadute sulla psiche ancora tutto da decifrare. Sono cambiati i modelli relazionali, sempre più disincarnati. Sono cambiate le regole sociali e il rapporto con il tempo soggettivo, sempre più sequestrato dalla ideologica totalizzazione del tempo lavorativo. È cambiato lo stato di salute generale dell’ambiente, sia quello sociale che quello geo fisico in senso stretto. E nulla è cambiato in meglio. La catastrofe e il vissuto catastrofico non sono più una ipotesi apprensiva, ma un dato di fatto con cui ciascuno convive, con le personali risorse residue. Crisi economica permanente, crisi climatica esplicata in tutta la sua violenza, crisi sanitaria culminata nella pandemia, le guerre. Ciò che è stata corrosa in questi decenni, semplicemente, è l’idea stessa di futuro. Lo si è già scritto, ma è sempre bene ribadirlo, il trauma vero non necessariamente risiede nel passato, in qualcosa di vissuto. Il trauma più spaventoso è l’incognita del futuro. Con una duplice accezione. Da una parte una scarsa fiducia nella sopravvivenza stessa del mondo, almeno nella forma fin qui conosciuta. Due settimane fa un mio giovane paziente commentava dei suoi coetanei saliti alla ribalta per essere andati a spalare fango dopo le alluvioni catastrofiche in Emilia Romagna. Per inciso raccontava delle discussioni frequenti con i suoi coetanei e della rabbia che caratterizza questi contro i padri, colpevoli di avere consumato il mondo. Il sotto testo sembrava essere che se ci fosse ancora qualcosa di concreto e materiale per cui impegnarsi, anche la sua generazione potrebbe essere meno arrabbiata e più costruttiva. E qui arriviamo alla seconda accezione, a mio avviso quella più corrosiva dei livelli di benessere possibile. Una crisi radicale della fiducia di poter cambiare efficacemente lo stato delle cose attraverso l’impegno e la fatica. Come dire che non soltanto tanto è perduto, ma che non sussistono più le condizioni per ripristinare ciò che si è perso. Le condizioni in questione non riguardano tanto le condizioni materiali, quanto l’agibilità politica per il cambiamento. Da Genova in poi, dal luglio 2001, i segnali sulle possibilità concrete di incidere sul governo delle cose pubbliche e comuni, non sono stati certamente incoraggianti. O incoraggiati. Le democrazie occidentali sembrano sempre più forme vuote, simulacri formali difficili da vitalizzare. “Nell’ultimo mese ho iniziato un giro di presentazioni del libro Disertate. L’ho presentato all’università di Macerata, al circolo accelerazionista Che Guevara di Roma, in un locale veneziano, e infine all’imbarchino torinese, mentre il Po si stava gonfiando, fin quando ha invaso i locali dove fino a poco prima ci eravamo assiepati. Spesso il pubblico era composto di gente che non conoscevo, ragazzi che prima della pandemia erano adolescenti e che si sono formati intellettualmente negli anni in cui il virus ha scompaginato l’ordine politico, simbolico, economico e psichico. Alla facoltà di Economia di Bologna un ragazzo ha preso la parola per dire: “Ho vent’anni, non ho scelto io di venire al mondo, e so che tra cinque anni la terra sarà inabitabile. Voglio vivere felicemente i prossimi cinque anni senza pensare a quello che accadrà dopo perché non serve a niente pensarci.” Sono rimasto senza parole, ho solo sussurrato “chapeau”.” (Franco Berardi) Fare veramente i conti con questa disposizione d’animo, con questa disperazione lucida e non emotiva non è certo cosa semplice per nessuno. Tanto meno per gli adulti che per definizione dovrebbero fungere da contenitore atto a filtrare gli aspetti distruttivi del discorso, nei ruoli genitoriali, educativi o da curanti che siano. Perché il vero corollario di questa disposizione d’animo è che gli adulti non hanno nulla da dire, nulla che valga la pena di essere ascoltato a partire da una credibilità azzerata dai fatti del mondo. E dalla loro stessa fragilità che ha permesso il ripristino di un sistema e di un mondo totalmente abusante. Ciò che emerge con molto sgomento dai racconti sulle relazioni tra generazioni oggi, è una forma abbastanza inedita di radicale disconoscimento. Non semplice sfiducia, non soltanto oppositività, non solo rabbia ambivalente. Un sentimento di estraneità che diventa barriera, e che presuppone molto sudare per essere aggirato nei tempi e nei modi possibili, dettati dai tempi interiori dei ragazzi.
In un prezioso incontro organizzato dal nostro ordine sul tema del ritiro sociale degli adolescenti, Pietropolli Charmet racconta delle ore trascorse dietro porte chiuse di ragazzi e ragazze poco disponibili al dialogo non richiesto. Persone che senza apparente motivo progressivamente cominciano a disertare tutto ciò che li riguarda, la scuola, la palestra o le attività sportive, gli amici. Il cui mondo diventa la propria stanza e tutta la rete di relazioni che passano dal web. Nella sua esperienza clinica, il nodo fondamentale che induce al progressivo ritiro riguarda le trasformazioni di un corpo che non viene vissuto come presentabile, da sottrarre agli sguardi severi e giudicanti dei pari. Un sentimento di vergogna per questi corpi in fieri, sentiti poco virili o poco avvenenti o poco femminili o troppo femminili, con ampia varietà di gamma dei disagi possibili. Tema d’altronde non nuovo ad uno sguardo psicoanaliticamente formato. Uno dei travagli fondanti il passaggio ad un’età adulta è sempre stato quello di riconoscimento e familiarizzazione con il proprio corpo in divenire. Perché quindi oggi tale travaglio si esplica in una forma tanto radicale? Che battaglia si combatte sul e con il proprio corpo? Probabilmente, ciò che si è radicalizzato è lo sguardo giudicante, divenuto feroce. A chi appartiene questo sguardo, è la vera questione clinica, politica e sociale ad un tempo. Il registro mentale in cui la battaglia si svolge è quello immaginario, e come questo immaginario venga a strutturarsi e perché sia così tanto sovrabbondante rispetto al registro reale e, soprattutto, rispetto al registro simbolico è la vera pietra di inciampo della nostra contemporaneità. E di questo dovremmo ragionare per ore ed ore. Di modelli e competizioni, di linguaggi prevalenti, di collusioni consapevoli o celate. Ovviamente uno dei punti è che lo sguardo giudicante non è soltanto subito, è molto agito, nei confronti di se stessi e nei confronti del mondo che ci circonda, e lo spettacolo d’arte varia che si mostra non è dei più brillanti, a partire dagli adulti di riferimento prossimi. Come se non valesse più neppure la pena di andare allo scontro generazionale, come sempre accaduto. Anche perché la fragilità emotiva degli adulti ti fa sentire immediatamente un serial killer, quindi li devi pure proteggere. Spesso i ragazzi mi chiedono un aiuto perché, dicono, non riescono a gestire la rabbia. Certo, non vi è più un grande allenamento a gestire le frustrazioni; certo, le frustrazioni vengono vissute come elementi persecutori a prescindere e non come parte inscindibile della condizione vivente. E sempre più spesso le frustrazioni vengono immediatamente tradotte in comportamenti aggressivi, auto o etero diretti. Ma la questione di fondo resta che la motivazione di tanta rabbia, più o meno manifesta, è sempre un insostenibile sentimento di impotenza che non riesce a trovare sbocco costruttivo. E come e dove dovrebbe essere trovato uno sbocco costruttivo in un mondo in disfacimento, e comunque immodificabile? Il sintomo sta oggi al posto dell’agire politico e collettivo, sempre più. Ciò non riguarda soltanto le ragazze o i ragazzi, ampiamente i giovani adulti, ma soprattutto loro. A disposizione ci sono soltanto dei sogni individuali, più o meno effemeri, affidati al talento soggettivo, che spesso è tanto. Ma nulla di condiviso, e poco che possa incidere sulla salute complessiva del mondo. Tranne che per un aspetto fondamentale. La vera battaglia di soggettivazione possibile oggi si gioca tutta sempre sul corpo. Lo spazio unico di definizione possibile è quello del genere e dell’identità sessuale, e non a caso è uno spazio ampiamente praticato, esplorato, sperimentato, trasformato. Ed è anche lo spazio maggioritario in termini di partecipazione sociale e di militanza politica, più ancora che dei temi ambientali, comunque troppo in mano agli adulti le chiavi del cambiamento possibile su quel terreno. I cortei del Pride non hanno nessun possibile confronto con null’altro, in termini di partecipazione numerica e di determinazione. Ridurre tutto ciò soltanto ad un effimero effetto moda, è l’ennesimo fraintendimento che tradisce da parte del mondo adulto.
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
Franco Berardi Bifo Disertate Timeo 2023 Daniel Marcelli Il bambino sovrano. Un nuovo capo in famiglia? Raffaello Cortina Editore 2004 Gustavo Pietropolli Charmet I nuovi adolescenti. Padri e madri di fronte a una sfida Raffaello Cortine Editore 2000