Lo sport da sempre ha costituito e costituisce una esperienza formativa completa per lo sviluppo psicofisico e sociale dell’essere umano. La valenza educativa è risaputa e confermata da contributi scientifici presenti in letteratura. La pratica dell’attività sportiva ha benefici su diverse dimensioni dell’esperienza umana ed i suoi effetti sono terapeutici e migliorativi sul piano della qualità della vita e del wellness. Mantenere uno stile di vita sano, con una regolare e corretta attività motoria contribuisce a far star meglio le persone. La scelta dei ragazzi di praticare sport, cosi come confermato da innumerevoli ricerche scientifiche, migliora il rendimento scolastico e favorisce una sana e funzionale strategia di coping (Resaland et al,, 2016). Inoltre, sul piano educativo favorisce lo sviluppo ed il rispetto delle regole, di comportamenti etici, del confronto con l’altro, di problem solving e di adattamento creativo a nuove situazioni.
La pandemia da Covid-19 che stiamo attraversando, ha inevitabilmente segnato il vissuto di ciascuno, modificando le abitudini e stabilendo nuovi adattamenti. I giovani, in particolar modo, hanno subito questo cambio di ritmo in modo sostanziale nell’organizzazione del quotidiano. La drastica quanto improvvisa interruzione dei contatti sociali in presenza, caratterizzata dalla frequenza scolastica a distanza e dalla interruzione improvvisa della pratica dell’attività sportiva, ha amplificato la modalità virtuale delle relazioni e del confronto con l’altro. Tale cambiamento, inevitabilmente, ha inciso sulla salute e sull’equilibrio dell’intero sistema bio-psico-sociale della persona. In questi mesi, a seguito delle chiusure, parziali o totali degli impianti sportivi e delle palestre, si è verificata una interruzione o una diminuzione significativa dell’esercizio fisico.
È opinione comune che lo sport è considerato una palestra di vita. Tale considerazione racchiude in sé l’insieme di abilità tecnico-tattiche specifiche della disciplina sportiva ma anche sociali e relazionali. Lo sviluppo di competenze e di abilità che un giovane acquisisce e porta con sé nel corso della propria vita, maturate all’interno dell’esperienza sportiva, costituiscono degli strumenti funzionali per fronteggiare le diverse situazioni della vita. La capacità di trovare le soluzioni nei momenti di difficoltà, di assumersi la responsabilità delle proprie scelte, di gestire le frustrazioni per gli insuccessi e le pressioni emotive, sono abilità che si sperimentano, sia nel contesto sportivo, sia nella realtà del quotidiano.
Lo sport è anche un palcoscenico importante dove il giovane costruisce e sperimenta valori e rispetto di regole: lealtà, etica, rispetto dell’avversario, tolleranza. Chi pratica sport sviluppa la capacità di autoregolarsi, definendo nell’esperienza il proprio Sé. Attraverso l’esperienza sportiva il giovane impara ad essere autonomo ma anche ad appartenere ad un gruppo, ad una squadra. La pratica dell’attività sportiva permette di contattare emozioni, di riconoscerle come proprie e di gestirle nelle diverse situazioni.
Una abilità che viene richiesta a chi pratica sport è la resilienza, concetto permutato dalla fisica relativamente alla capacità che i metalli hanno di sopportare le pressioni. Uno sportivo inevitabilmente lavora per sviluppare tale caratteristica; basti pensare alla gestione degli infortuni o delle competizioni che implicano un investimento considerevole di energie fisiche e mentali. Allo stesso tempo essere resiliente riporta ad un atteggiamento, ad un modo di essere per affrontare le sfide quotidiane in maniera attiva e propositiva. La sfida, il superare il proprio limite, attiva le nostre risorse. Non è raro ascoltare, alla fine di una maratona, il commento dell’atleta che dichiara di avere provando perfino piacere nella fatica e soddisfazione nel raggiungimento dell’obiettivo prefissato.
L’attività sportiva ha anche la funzione di sviluppare ed incrementare la dimensione sociale e relazionale, a prescindere dall’età di chi la pratica. Più volte ci sarà capitato di ascoltare genitori che riferiscono di avere scelto una particolare disciplina sportiva per il proprio figlio anche per favorire i momenti di socializzazione e di confronto con i pari con l’obiettivo di fare emergere parti che sono collocate nello sfondo e che stentano, in altri contesti, ad essere espresse. Qualcosa di simile si riscontra anche nel mondo degli adulti; sempre più spesso la formazione di gruppi, anche amicali, vanno ben oltre la pura condivisione del momento sportivo ma si sviluppa sul piano sociale e relazionale fuori dalla palestra o dal luogo di allenamento.
Nel mondo giovanile lo sport ha, anche, la funzione di prevenzione del disagio psicosociale. Negli anni passati, il sorgere di impianti sportivi, palestre, campi di calcio in alcune aree degradate o a forte rischio di devianza è, e continua ad essere, uno strumento per canalizzare in modo funzionale le energie all’interno di un progetto di crescita “sano”.
Il bisogno di movimento è, comunque, qualcosa che fa parte della natura dell’uomo ed è quanto di più democratico possa esserci. Il livello di soddisfazione è inevitabilmente correlato al vissuto ed al significato che si attribuisce all’esperienza. Pertanto, la pratica sportiva in età evolutiva è fortemente connessa alla dimensione motivazionale.
La motivazione si può sviluppare ed incrementare, in modo più strutturato, attraverso percorsi di allenamento costante, sia negli sportivi che fanno agonismo che in coloro che praticano sport a livello amatoriale con finalità puramente ludico-ricreative. La continuità della pratica sportiva o l’abbandono (drop-out), attraverso una graduale perdita di interesse, sono esperienze con cui si confronta un giovane.
Da studi più recenti, emergono dati preoccupanti relativamente all’età dei ragazzi che abbandonano lo sport praticato per rimanere inattivi da un punto di vista motorio. Alcuni anni fa, gli abbandoni riguardavano persone che in media avevano diciassette anni; oggi, l’età si è abbassata a circa dodici/tredici anni. Questo dato è preoccupante perché incide sulle condizioni generali di salute dei giovani, sull’incidenza di patologie cardio-vascolari. Cei (2015), sostiene che: “Lo sport viene spesso abbandonato perché i giovani non trovano soddisfatti i bisogni che li avevano inizialmente spinti a intraprendere questa attività”.
Ma quali sono i fattori che determinano la motivazione alla pratica sportiva in un giovane? Quali lo incentivano e quali lo indeboliscono? La motivazione all’attività motoria si modifica in base alla fase di vita che sta attraversando un giovane? Un evento, una esperienza vissuta negativamente o ancora una modalità di sostegno disfunzionale da parte dell’istruttore/educatore o del genitore (caregiver) quanto condiziona il livello motivazionale dei giovane rispetto alla pratica sportiva? Questi interrogativi ci portano a riflettere sulla correlazione tra attività sportiva in età giovanile e la dimensione motivazionale.
Chi inizia a praticare una qualsiasi attività sportiva, da bambino come da adulto, è spinto da alcuni bisogni precisi. Si pensi ad un bambino che ricerca nell’attività di gioco, il divertimento. Divertirsi è il bisogno che motiva ad una azione specifica (il gioco). Anche gli adulti ricercano la componente ludica nella attività sportiva che svolgono. Nella pratica sportiva amatoriale, la ricerca del divertimento è più evidente rispetto a chi pratica sport a livello agonistico e/o professionistico. Comunque, il piacere che si trae dallo svolgimento dell’attività implementa la componente del divertimento. Il gioco in sé racchiude la spontaneità, la creatività, l’aggressività sana, la competizione e l’energia; caratteristiche che possiedono i bambini. La pratica sportiva riporta l’adulto alle origini, all’essere puro, al recupero della “bellezza”.
Il secondo bisogno che soddisfa la pratica dell’attività sportiva è lo sviluppo di competenze specifiche. Dai dodici anni in poi, nell’attività sportiva, oltre al divertimento e ad affinare la coordinazione relativa al movimento del corpo nello spazio, si cerca l’acquisizione di conoscenze tecniche e tattiche. Sapere controllare e padroneggiare un comportamento, avere la percezione del potere, del sapere fare, di incrementare le proprie abilità per uno sviluppo personale più completo.
Il terzo bisogno che viene soddisfatto dalla attività sportiva è quello di affiliazione. L’ambiente sportivo che si frequenta, favorisce l’incremento e lo sviluppo di relazione sociali; la palestra, il gruppo sportivo in generale nel giovane che pratica sport può agevolare la possibilità di consolidare delle relazioni di amicizia pregresse o di favorire la creazione di nuove relazioni amicali. Quindi, oltre ad incidere sul livello di autostima, sviluppa nella persona il senso di appartenenza ad un gruppo, ad una squadra, ad una comunità. Le relazioni, e la cure delle stesse, oggi nella società post moderna sono considerate una vera e propria ricchezza. Cavaleri (2007) definisce la relazione come la nuova ricchezza dell’umanità. L’autore parla di “bene relazionale” che si contrappone a quello capitalistico. Pertanto, i contesti che favoriscono lo sviluppo di uno stile di vita sano e la costruzione di relazioni all’insegna del sano agonismo, di regole condivise e di valori di lealtà e correttezza, consegnano alla persona una ricchezza invisibile.
Precedentemente La teoria della piramide dei bisogni di Maslow (1954) fornisce una correlazione alta tra i bisogni e i processi motivazionali con i quali l’essere umano si confrontano quotidianamente.
Nell’esperienza sportiva, oggi, il progetto di miglioramento è fortemente minacciato dal raggiungimento a tutti i costi del risultato. Alla luce di queste considerazioni, entrano in gioco diverse variabili di carattere individuale ed altre di natura ambientale. Chi pratica attività sportiva con una motivazione al compito utilizza l’esperienza per superare il proprio limite e fare dell’evento sportivo un modo per accrescere le proprie abilità. Pertanto, gli stessi sono delle persone molto costanti negli allenamenti e nel compito da svolgere, non interessate alle sfide a tutti i costi. Gli insuccessi sono vissuti come eventi finalizzati al porsi nuove sfide, quindi con accezioni positive. I giovani sportivi motivati al compito tendono ad avere un senso etico molto sviluppato; è estraneo a loro il desiderio di barare o di volere fornire una immagine di sé migliore di quella reale. Diversamente, coloro i quali sono spinti ad inseguire il risultato a tutti i costi, si cimentano in esperienze sportive abbordabili dove il rischio dell’insuccesso è basso. Tale situazione non mette in crisi la propria organizzazione e difficilmente li porta a confrontarsi con il fallimento e l’insuccesso. Le varie situazioni in cui vivono la propria esperienza sono nel pieno controllo. Tendenzialmente, questi giovani sportivi scelgono obiettivi facili e ritengono che il successo sia determinato dal loro livello di abilità; affrontano gli obiettivi che reputano difficili con un coinvolgimento ridotto in modo che il fallimento non scalfisce la stima e la fiducia in se stessi.
La paura dell’insuccesso, della sconfitta ha a che fare con il concetto di errore, di fallire. L’essere umano fa esperienza dell’errore nell’arco di tutta la vita, pertanto, eliminare tale esperienza è impossibile. Quindi, non è l’errore in sé ma il modo come viene gestito dalla nostra mente.
L’indebolimento o la visione parziale del concetto di sport enfatizza più che mai oggi l’importanza del risultato, dello score. Osservando, in diversi contesti sportivi, la relazione genitori – figli, anche quelli non propri, spesso si sente chiedere: “Hai vinto o perso?”; Quanto hai vinto?”; “Ma come hai fatto a perdere questa partita?”. L’esperienza si riduce a questi aspetto: “Vincere” o “Perdere”. Certamente fanno parte del gioco, non si può rinunciare a questo. Sottolineare, però, tale aspetto in prima battuta, come se avesse una valenza esistenziale e prioritaria per la persona, diventa riduttivo ed anche diseducativo soprattutto nelle fasce di età più piccole. Il perseverare davanti alle difficoltà, gestire gli imprevisti, sperimentare nuovi modi per raggiungere nuove mete, sono abilità e modi di essere che si apprendono nell’esperienza sportiva. Fare esperienza del fallimento non vuol dire fallire nella propria vita o essere un fallito. L’esperienza sportiva va oltre lo “score”. Prima di entrare nel campo centrale di Wimbledon, gli atleti si confrontano con una frase posta sopra la porta che fa accedere al campo di gioco:
“If you can meet with Triumph and Disaster and treat those two imposters just the same”.
Il successo e il fallimento sono le due facce della stessa medaglia, la strada in cui si cresce e si cammina, si cade e ci si rialza con dignità e coraggio. Lo sport in sè racchiude gioco e disciplina, impegno e leggerezza, paura e coraggio.
Ma come lavora lo psicologo dello sport e sviluppa il suo intervento all’interno di una organizzazione sportiva? La figura dello psicologo all’interno del contesto sportivo è spesso accompagnata da pregiudizio e scetticismo. Lo psicologo è riconosciuto socialmente nella sua accezione “clinica” pertanto l’inserimento nel contesto sportivo, ancora oggi, è vissuto in parte con diffidenza. Famosa è la considerazione di Cesare Maldini, ai tempi CT della nazionale italiana di calcio, che sosteneva di non avere bisogno dello psicologo perché i suoi giocatori non erano pazzi. Tale considerazione suscitò la reazione da parte dei rappresentati della categoria professionale che precisarono il valore aggiunto dello psicologo all’interno del contesto sportivo. Tale pregiudizio è frutto di una errata informazione e conoscenza in merito al lavoro dello psicologo dello sport ed implica la necessità di un cambiamento culturale che sdogani il lavoro psicologico come solamente clinico. Oggi comunque vi è una maggiore apertura, conoscenza e presenza, sempre più capillare, di psicologi all’interno di contesti sportivi.
L’intervento dello psicologo dello sport nel settore giovanile si sviluppa all’interno di differenti sottosistemi: dirigenti, tecnici, genitori, atleti.
Il lavoro con i giovani atleti è relativo allo sviluppo ed al potenziamento delle abilità mentali ed al successivo monitoraggio. L’intervento è prevalentemente esperienziale, sul “campo”, nel luogo dove loro vivono la loro passione, il loro sport. A tal proposito, lo psicologo dello sport indossa spesso la tuta così come qualsiasi altra persona del team di lavoro.
Il lavoro con i tecnici è relativo all’osservazione delle modalità relazionali, della comunicazione e dell’utilizzo dei feedback. Tale lavoro si sviluppa in attività di formazione ed informazione.
Il lavoro con i genitori prevede lo sviluppo della consapevolezza del ruolo, la definizione delle motivazioni e delle aspettative, il sostegno al figlio/a nell’esperienza sportiva e il rapporto con la dirigenza e con l’allenatore. Tale intervento è di natura informativa e formativa. Singolare e provocatoria è l’affermazione di un allenatore il quale sosteneva che gli sarebbe piaciuto allenare una squadra di orfani; ciò manifesta la difficoltà della relazione tra tecnici e genitori, quanto quest’ultimi vengano percepiti da ostacolo e quanto importante sia un lavoro più capillare con questa categoria proprio all’interno del lavoro con atleti in età evolutiva. I genitori sono una risorsa preziosa per i giovani che praticano sport, troppo importante per poterci rinunciare, lo spazio di intervento è considerevole e può determinare un aiuto sostanziale per i giovani atleti.
L’ultimo ma non ultimo è il sottosistema dirigenziale; accogliere la figura dello psicologo all’interno della propria organizzazione è il primo passo per legittimare e condividere il ruolo e gli obiettivi. Spesso, nelle realtà locali, questo passaggio non è semplice e veloce; necessità di molto tempo, a volte anche anni, prima di essere contemplato all’interno del proprio organico. Alcune federazioni sportive nazionali come la FIGC (Federazione Italiana Giuoco Calcio) e la FIT (Federazione Italiana Tennis) contemplano all’interno dei propri programmi federali relativi al settore giovanile la figura dello psicologo. L’area psicologica all’interno dei programmi di formazione e di allenamento ha sempre più considerazione e spazio di azione. Il desiderio è che tra qualche tempo sempre più federazioni sportive nazionali e società affiliate possano richiedere l’intervento dello psicologo, in particolar modo, nel lavoro con gli atleti in età evolutiva.
Foto di Lukas da Pexels
Foto di Keith Johnston da Pixabay
Bibliografia
Buonamano Roberto., Cei Alberto, Mussino Antonio., La motivazione dei giovani alla pratica sportiva, Scuola dello Sport, Coni, Roma, 1993
Cavaleri Pietro A, Vivere con l’altro. Per una cultura della relazione, Città Nuova, Roma, 2007
Cei Alberto, Allenarsi per vincere, Calzetti – Mariucci Editori, Torgiano PG, 2015
Cei Alberto, Psicologia dello sport, Il Mulino, Bologna, 1998
Dell’Edera Michelangelo, Vagli Matteo, Simoncelli Caterina, Daino Antonio, Maestri e genitori: due punti di vista da conciliare, in Movimento. Rivista di Psicologia e Scienze del Movimento e dello Sport, Volume 30 – n. 2 – 3, Maggio – Dicembre 2014, pp. 65 – 70
Maslow Abraham, Motivazione e personalità, Armando Editore, Roma, 1954
Pravadelli Cristiano, Genitori in campo. Crescere i figli e vincere insieme, Ed. Terre di Mezzo, 2020
Robazza Claudio, Bortoli Laura, Gramaccioni Gianfranco, La preparazione mentale nello Sport, Edizioni Luigi Pozzi, Roma, 1994
Sitografia
Cei Alberto, Giovani e sport, in www.ceiconsulting.it;
Daino Antonio, Libera la mente … dal risultato finale, in www.supertennis.tv, 2019;
Resaland Geir Kare, Effects of physical activity on schoolchildren’s academic performance: The Active Smarter Kids (ASK) cluster – randomized controlled trial, in www.sciencedirect.com, 2016;
Programma di Sviluppo Territoriale. Allenare l’attività di base, soluzione per la formazione del giovane calciatore, in www.figc.it Settore Giovanile e Scolastico; 2020