La violenza relazionale non si manifesta soltanto con il controllo esplicito o la sopraffazione fisica. Spesso abita luoghi più silenziosi: relazioni familiari o affettive dove l’altro diventa strumento per sedare l’insicurezza, garantire appartenenza o mantenere un ruolo di potere. In questi contesti, la violenza si traveste da premura, sacrificio, fedeltà assoluta. Eppure lascia segni profondi.
Come clinici, intercettare questi segnali significa leggere la grammatica delle dinamiche disfunzionali: riconoscere pattern in cui l’identità dell’uno viene sistematicamente soffocata per mantenere l’equilibrio malato dell’altro. Talvolta si tratta di forme sottili di manipolazione: gaslighting, colpevolizzazione sistematica, ambivalenza affettiva. Altre volte, il paziente arriva con una sintomatologia ansioso-depressiva e solo nel tempo emerge il peso di una relazione disfunzionale.
Il lavoro terapeutico parte spesso da lì: dare un nome all’esperienza vissuta. Quando il paziente riesce a raccontare il non detto, a descrivere la vergogna, la paura di deludere o di essere abbandonato, il percorso di consapevolezza si avvia. La violenza relazionale, infatti, non si limita a ciò che l’altro ha fatto, ma si radica nei silenzi interiorizzati, nei “non valgo abbastanza” appresi nella storia affettiva del soggetto.
Francesca (nome di fantasia) ha 38 anni. Arriva in terapia per attacchi di panico e una persistente sensazione di “sentirsi sbagliata”. Nel tempo emerge una relazione di coppia lunga dieci anni, apparentemente stabile, in realtà costellata da svalutazioni, ambiguità affettive, sospetti continui e un controllo capillare mascherato da “amore protettivo”. Ogni tentativo di autonomia veniva interpretato come egoismo. Quando Francesca racconta di aver cominciato a dubitare della propria percezione della realtà, emerge il tema del gaslighting: una forma di manipolazione emotiva in cui l’abusante induce la vittima a mettere in discussione la propria memoria, percezione o sanità mentale.
Nel lavoro clinico, abbiamo attraversato fasi di forte ambivalenza, senso di colpa, paura di “esagerare”. Solo con la stabilizzazione del legame terapeutico, Francesca ha potuto iniziare a rielaborare consapevolmente quanto vissuto, riconoscendo i modelli relazionali interiorizzati e recuperando la fiducia nella propria voce.
Il lavoro con pazienti coinvolti in dinamiche relazionali violente non può prescindere da un approccio integrato.
Gli strumenti più utili si collocano lungo tre direttrici:
Il lavoro psicologico relazionale e i modelli basati sull’attaccamento offrono quadri teorici solidi per comprendere come la dipendenza affettiva, la paura dell’abbandono e la difficoltà a riconoscere i confini personali possano rendere difficile uscire da legami dannosi. In parallelo, l’approccio trauma-informed invita il terapeuta a non chiedere mai “cosa c’è che non va in te?” ma piuttosto “cosa ti è successo?”.
Ogni percorso di fuoriuscita da una violenza relazionale richiede tempo, pazienza, ma anche una visione fiduciosa. Come clinici, non possiamo promettere “guarigioni”, ma possiamo offrire spazi sicuri in cui ricostruire dignità, anche dopo anni di manipolazione o svalutazione. In questo senso, il lavoro clinico diventa anche gesto politico, perché restituisce voce e valore a chi è stato zittito nei luoghi in cui avrebbe dovuto sentirsi amato.
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