Relazioni che feriscono: riflessione clinica, il ruolo del professionista nella prevenzione, valutazione e trattamento della violenza
Autore: Giuseppina Serena Malaponti

La violenza relazionale è identificabile come un’emergenza non solo di stampo individuale ma anche – e soprattutto – di rilevante impatto sociale, culturale e psicologico. Una problematica che proprio per la sua complessità va affrontata servendosi di un approccio multidimensionale ed interdisciplinare, lontano dal poter essere riconducibile ad un’unica matrice eziologica e che, appunto, richiede uno sguardo attento e critico che sappia essere in grado di prevenire, intercettare e di intervenire su tale condizione sempre più dilagante.

La violenza relazionale non ha genere e non è solo quella romantica o affettiva (di coppia o familiare) come si può essere portati a pensare in un contesto sociale sempre più segnato da episodi di violenza di genere e femminicidio documentati quasi quotidianamente dai media, venendo ingannati dal termine “relazionale”, questa, infatti, include tutte quelle forme di violenza che possono comparire in ogni tipo di rapporto (amicale, lavorativo, istituzionale..) nel quale l’obiettivo principale diventa quello di controllare, umiliare, denigrare, danneggiare, svalutare qualcun altro da un punto di vista fisico e/o psicologico, economico, sessuale e così via.

A differenza di altre forme di violenza, quella relazionale si configura come un fenomeno pervasivo ed insidioso, proprio perché si sviluppa tipicamente all’interno di quei legami significativi, che come già detto non necessariamente sono quelli affettivi, nei quali può o meno esistere un vincolo emotivo profondo, ed in particolare in quest’ultimo caso diventa più difficile riconoscerla ed identificarla come tale in quanto si tende a giustificare e ad assolvere il comportamento lesivo. Proviamo a fare alcuni esempi che possano far comprendere meglio i diversi contesti e situazioni nelle quali, seppur dissimili, si può parlare di violenza relazionale:

  • rapporto di intimità, l’intimità del legame produce una dinamica paradossale, la stessa relazione che dovrebbe garantire protezione e sostegno si trasforma in una fonte di minaccia e disgregazione psichica e/o fisica;
  • relazioni idealizzate, sono quelle nelle quali si attribuiscono all’altro o al legame stesso caratteristiche spesso lontane dalla realtà. In pratica, si costruisce un’immagine ideale della relazione o del partner, che può non corrispondere a ciò che realmente è;
  • in contesti lavorati, spesso si è vittime di mobbing, una condotta attuata da colleghi o superiori che procurano terrore psicologico a qualcun altro. Si esplicitano con atti reiterati, vessatori, si attuano umiliazioni, dei veri e propri attacchi costanti alla persona che ne ledono la dignità.

Oltre al mobbing, che si configura prevalentemente nell’ambito lavorativo, si possono riscontrare altre manifestazioni di violenza relazionale, come lo stalking ed il bullismo, le quali, pur differenziandosi per contesti e modalità, si fondano su analoghi meccanismi di sopraffazione e abuso:

  • lo stalking, si manifesta attraverso comportamenti persecutori, continuativi, come ad esempio pedinamenti, telefonate, messaggi continui o comunque in generale è caratterizzato da un atteggiamento intrusivo nella vita privata della vittima;
  • il bullismo, si mostra, soprattutto, in contesti scolastici adottando un atteggiamento di prevaricazione nei confronti della vittima ad opera del bullo, compromettendone l’autostima della prima percepita come più debole.

Di qualsiasi contesto si tratti e di qualsiasi situazione si parli, il denominatore comune è riconducibile ad una condizione di abuso di potere, di controllo sulla potenziale vittima, e la presunzione di una asimmetria relazionale con mancanza di rispetto dell’altro avente un importante impatto psicologico, e non solo, nel breve e lungo termine. In ciascuna di queste situazioni vi è un “vincolo relazionale”. Il professionista, in quanto tale, è chiamato ad intercettare anche solo le avvisaglie di simili comportamenti, aiutare a comprendere ciò che spesso viene giustificato o tutto ciò che la vittima non riesce a decodificare, in quanto l’episodio di violenza può anche non presentarsi in forma esplicita ed immediatamente riconoscibile, ma si può esprimere attraverso microviolazioni ripetute, quindi, strategie di controllo, atteggiamento di possesso, isolamento progressivo, svalutazione sistematica, che compromettono la percezione di sé della vittima e la sua capacità di agire. A volte succede che quando si è coinvolti in un legame, specialmente se di tipo affettivo, anche se malsano, lo si continui ad alimentare, perdonare, nel tentativo benevolo di poter modificare la situazione di malessere, ciò che tiene legati nella relazione, anche se violenta, è che senza ci si sentirebbe svuotati e significherebbe ammettere che quel tempo impiegato a costruire la parte sana non sia servito, ma in realtà questo vuol dire legarsi a ciò che si è investito emotivamente, amorevolmente e non a ciò che l’altro è o è diventato.

Nel contesto terapeutico, le dinamiche di violenza all’interno delle relazioni intime raramente si presentano in forma manifesta o immediatamente riconoscibile. Al contrario, molto spesso emergono sotto forma di sintomatologie indirette, apparentemente scollegate dalla matrice traumatica relazionale. La violenza, spesso, si annida nel non detto, si cela dietro diagnosi di ansia generalizzata, depressione resistente al trattamento, disturbi psicosomatici o comportamenti disfunzionali. Pertanto, è fondamentale tenere conto anche della dimensione controtransferale, le relazioni terapeutiche con pazienti vittime (o talvolta anche autori) di violenza mettono inevitabilmente in moto reazioni emotive intense nel clinico: sentimenti di impotenza, rabbia, desiderio di protezione o, al contrario, distacco e giudizio. In assenza di una adeguata consapevolezza e supervisione, il rischio è quello di colludere inconsapevolmente con le dinamiche disfunzionali portate in terapia. Per questo motivo, l’intervento clinico richiede non solo competenze tecniche, ma anche una costante riflessione sul proprio assetto interno.

Come può intervenire il clinico?

Intercettando i segnali, comprendendo le dinamiche ed intervenendo in modo competente e integrato.
La prevenzione è un lavoro quotidiano, di rete, che va sostenuto con risorse e competenze; è un compito che coinvolge l’intera comunità professionale. Sono importanti i vari livelli di prevenzione: prevenzione primaria, secondaria e terziaria.

La prevenzione primaria
Obiettivo: prevenire che la violenza si manifesti, agendo prima dell’insorgenza del fenomeno, non si interviene sulla violenza già in atto, ma consiste nel cercare di impedire l’innescarsi della violenza promuovendo campagne di sensibilizzazione sociale per educare alla conoscenza del fenomeno ed al riconoscimento delle relazioni sane, agisce nel riconoscere gli eventuali campanelli di allarme che ne impedirebbero il prosieguo e di conseguenza l’evolversi del fenomeno, nell’educare alla valorizzazione di sé stessi e degli altri ed al rispetto reciproco.

La prevenzione secondaria
Obiettivo: intercettare precocemente segnali di rischio o violenza in atto per limitarne la gravità e l’evoluzione, con l’obiettivo di evitare la cronicizzazione o che la violenza possa assumere forme più preoccupanti.

La prevenzione terziaria
Obiettivo: si rivolge già a fatti di violenza conclamati, l’obiettivo, in questo caso, diventa quello di contenere danni psichici e relazionali, prevenire o impedire le reiterazioni di schemi abusanti, favorendo la riparazione, la cura e la reintegrazione della persona.

Il ruolo dello psicologo deve essere non solo quello di prevenire, intervenire, o di essere orientato alla cura, ma muoversi verso la trasformazione di quei contesti che rendono possibile ed invisibile la violenza. Diventa essenziale il lavoro di rete, di fronte a problemi complessi come la violenza relazionale, nessun intervento può essere efficace se non inserito in una logica di integrazione tra servizi, professionalità e livelli istituzionali, quindi, una rete integrata di prevenzione e di intervento. Gli attori della rete sono i seguenti: psicologi, servizi sociali, sistema educativo scolastico, sistema giudiziario, centri anti violenza, la persona stessa e la sua rete informale, ciascuno di essi diventa parte attiva del processo di cambiamento [Campanini, A. (2013). Il lavoro sociale nella rete: teoria, metodo e strumenti, Carocci Editore]. Nessun intervento, da solo, può bastare; è necessario un lavoro multidisciplinare coordinato, continuativo e competente, capace di mettere in dialogo le varie professionalità e servizi. Il lavoro dello psicologo nella violenza relazionale abbraccia tutte e tre le forme di prevenzione, come indicato sopra, adattando strumenti e linguaggi a seconda del momento del ciclo di intervento e del grado di esposizione della persona alla violenza, agendo sempre in un’ottica di integrazione e corresponsabilità per garantire modalità di intervento efficaci e centrati sulla persona.

Strumenti da poter utilizzare

Strumenti di osservazione
Colloquio clinico; Scale di valutazione e check-list, che possano focalizzarsi su schemi relazionali di attaccamento, meccanismi di colpa, vergogna, ciclo della violenza.

Strumenti psicodiagnostici
Test proiettivi (TAT, Rorschach test) Test sul trauma e sull’attaccamento; MMPI valido strumento per la valutazione dei tratti di personalità, disagio emotivo, distorsioni cognitive.

Strumenti terapeutici e riabilitativi
EMDR
Terapia cognitivo – comportamentale
Interventi di psicoeducazione orientati ad agire sul senso di autoefficacia, ricostruzione identitaria e sulla capacità di instaurare relazioni sane.

Il percorso di cura non può essere inteso solo come intervento clinico, ma va recepito all’interno di un approccio che includa ascolto, riconoscimento del problema, protezione, sostegno ed infine ricostruzione. La cura, infine, non si esaurisce nella terapia individuale, ma può includere gruppi di supporto che offrono uno spazio protetto di condivisione e riconoscimento reciproco, facilitando la rielaborazione collettiva dell’esperienza di violenza e contrastando il senso di solitudine e colpa spesso interiorizzato, la promozione di percorsi di autonomia abitativa e lavorativa, quindi che permettano alla persona di ricostruire le basi materiali dell’indipendenza, spezzando i legami di dipendenza economica e relazionale che spesso ostacolano l’uscita da situazioni violente, e interventi comunitari volti a contrastare l’isolamento e a promuovere il reinserimento sociale, promuovendo iniziative di formazione territoriale e costruzione di reti significative.
La violenza relazionale, come descritto, può assumere molte forme: riconoscerla è fondamentale, ma non basta; serve un’educazione all’ascolto, al rispetto ed all’empatia, serve il coraggio di chiedere aiuto, ma anche la responsabilità di non voltarsi dall’altra parte. Ogni relazione, per essere sana, deve basarsi sulla libertà, non sulla paura, non sul controllo. Questa è una lezione che riguarda tutti, nessuno escluso, è una responsabilità collettiva, perché costruire relazioni sane è il primo passo per costruire una società più giusta, una società che investe nella prevenzione, sceglie di prendersi cura delle persone. In conclusione, investire nell’educazione e nella consapevolezza sin dall’infanzia non è soltanto una strategia di prevenzione della violenza relazionale, ma rappresenta anche un investimento nel futuro della società. Attraverso un approccio educativo integrato, è possibile favorire lo sviluppo di soggetti in grado di instaurare relazioni autentiche, empatiche e non violente, contribuendo così a creare ambienti familiari e sociali più sani e resilienti. Questo potrà essere realizzato solo attraverso la costruzione di un progetto educativo che non vede solo nello psicologo la figura centrale, ma in quanto integrato coinvolge diverse figure professionali, ciascuna con la propria competenza, che sinergicamente cooperano per mettere al centro la persona.

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