Succede sempre più spesso che i cruenti fatti di cronaca entrino direttamente nelle trame dei discorsi dei pazienti, soprattutto in gruppo, soprattutto da parte dei pazienti più giovani. Che si interrogano sgomenti e ci interrogano. Dopo l’ennesima uccisione di una giovane donna, una ancora più giovane donna chiede al gruppo che cosa significa che un loro coetaneo, o poco più, abbia accoltellato una poco più che coetanea, a pochi chilometri da qui peraltro. E che qualche settimana dopo, un adolescente racconti gli attimi di grande tensione vissuti al sapere che la ragazzina cui è molto affezionato, si trovava in piazza nel momento esatto in cui altri ragazzi poco più grandi facevano fuoco con le pistole a seguito di una rissa, uccidendo tre ragazzi. E che ancora in un’altra seduta di gruppo lo stesso vissuto amplificato venga raccontato da un giovane adulto che ha tutte le radici affettive poste in quella piazza, tra quelle strade, che ha visto direttamente coinvolti tante persone care, in prevalenza ragazze e ragazzi. Per non parlare dello sfondo continuo della macropolitica, di Gaza e della guerra mondiale diffusa. Come si contiene e si elabora tutto ciò in terapia? Quali categorie disponiamo per accogliere l’indicibile e farcene qualcosa? Come possono gli adulti dialogare con la generazione che si è autonominata ultima generazione? Cosa raccontare del mondo agli adolescenti senza mondo?
Nessuno dispone risposta, ma lo spazio terapeutico è uno spazio prezioso per elaborare pensare condiviso, sentire condiviso. E lo spazio del gruppo è anche uno spazio politico nel senso più radicale del termine, praticato e riconosciuto con gratitudine in quanto tale da tutti i partecipanti. E in quello spazio i temi universali si riflettono nei temi personali, e viceversa, acquisendo una luce diversa. Viviamo da un paio di decenni nel ritrovato tempo della sopraffazione e dell’abuso. Questa è la cifra del sentire politico prevalente, che si incarna nella scelta di leader sempre più autoritari, sempre più estremisti, sempre più portatori del risentimento e del disprezzo feroce verso qualsiasi forma di diverso da sé. Intercambiabili tra loro. Trump, Netanyahu, Bolsonaro, Millei, Orban, Vannacci, poco conta. Ciascuno di loro incarna il modello del bullismo estremo, quello per cui qualsiasi regola vale pur di annientare l’avversario trasformato in nemico, fino all’annientamento fisico, ovviamente. Gaza è tutto ciò, con il portato di impunità e impotenza generale che complessivamente elicita. In mezzo a questo modello crescono le nuove generazioni, senza nessuno spiraglio di possibilità e giustizia, ancora meno di verità . Non è soltanto per la gravissima crisi climatica, a sua volta figlia dell’impotenza e della malafede dei governanti del mondo. C’è una radicale crisi del valore dell’equità . Che il mondo sembra aver rigettato in maggioranza. Ultima generazione. Come si vive in mezzo a questa crisi? Mi adatto o soccombo, o diserto dal mondo, per ciò che mi è possibile? Le possibili conseguenze di ciascuna scelta sono facilmente intuibili, anche in termini di possibili configurazioni psicopatologiche. Se funziona così, se il mondo è a misura di bullo, allora è naturale che io giri armato e che se qualcuno mi rimprovera o mi dica o faccia alcunché di spiacevole, io usi l’arma a disposizione. E purtroppo il piano della identificazione è soltanto uno dei piani possibili di lettura intervenienti, forse il più evidente e superficiale paradossalmente. Anche se da non trascurare.
Le continue uccisioni di donne rientrano in una casistica purtroppo talmente ampia da non poter certo essere ricondotte a univoche direttive di lettura. Uomini che odiano le donne hanno presumibilmente motivazioni molto diverse che albergano al loro interno buio. La cultura patriarcale del possesso certamente è lo sfondo comune, ma temo non possa essere la chiave universale per interpretare tutto. In molte storie c’è il risentimento accumulato in decenni di maltrattamenti, a volte reciproci. In altre la psicopatia di alcuni uomini che trova nelle donne un bersaglio facile. In altre ancora una enorme vigliaccheria di uomini non disposti a pagare il prezzo di scelte incaute. A volte prevalentemente sentimenti di vendetta per presunti torti subiti. Ma forse non è un caso che a fare più rumore siano stati dei casi che per molti versi esulano da queste classificazioni sommarie. Filippo Turetta e Giulia Cecchettin su tutti, ma anche Sara Campanella e Stefano Argentino, per finire con la giovanissima Martina Carbonaro e Alessio Turci. Uomini giovani e giovanissimi ossessionati da giovani e giovanissime donne, che semplicemente non volevano le stesse cose, e che per questo sono state uccise in strada brutalmente. Esiste un nome possibile per queste ossessioni? Dove le andiamo ad inscrivere? Nel campo amoroso, nel campo del desiderio erotico o in che altro? Cosa veramente delegavano in queste giovani donne questi maschi immaginariamente? Forse occorre fare un salto. Ampio. L’ossessione per la relazione amorosa oggi sembra più presente che mai nei vissuti di tanti. Forse è sempre stato così, per certi aspetti, essendo il bisogno di sentirsi amato uno dei bisogni fondamentali. Ma nella contemporaneità mi pare di cogliere una certa dismisura nelle proporzioni raggiunte da questo bisogno. Che entra in azione in modo molto precoce. Che non è più il desiderio di sperimentazione affettiva e erotica che sempre ha accompagnato tutte le generazioni. Se nella mia generazione la ricerca prevalente era probabilmente centrata sul possibile partner di giochi erotici e sessuali, anche affettivi, oggi i termini sembrano essersi capovolti. La ricerca è più per la stabilità affettiva che per altro. Avere un compagno o una compagna è più importante di tutto, anche della sperimentazione del desiderio erotico. Cosa che ovviamente complica molto la questione, mettendo in campo molte più paure di quelle sperimentate un tempo. Prima i dubbi vertevano molto su se stessi, sulla propria prestanza e la propria abilità , con tutte le ansie da prestazione che venivano attivate. Oggi il primo dubbio sembra vertere sull’affidabilità dell’altro. Sempre. Il tutto aggravato dal fatto che in un mondo sempre più solitario e liquido, il mezzo primario di contatto sono diventati i social. Ovviamente l’uso delle app di incontro non riguarda affatto soltanto gli adolescenti. Ci sarebbe da ragionare molto su tutti gli adulti che usano Tinder o mezzi analoghi. Non certo in termini moralisti, ma certamente in termini pragmatici, sulla corrispondenza tra bisogno e mezzo per soddisfarlo, e sulla confusione di livelli che il mezzo ingenera, ampliando a dismisura le paure, le ambivalenze e le resistenze reciproche. Se fossero più chiaramente usati come mezzi di incontro sessuale probabilmente sarebbe tutto molto più semplice per tutti. Ma tornerei alla questione di partenza. Cosa implica questa ricerca a volte compulsiva del partner amoroso? Cos’è questa dismisura? Verrebbe da pensare che anche questo sia un sintomo della impraticabilità del mondo nella sua propria dimensione sociale. Uno dei punti estremi del ripiegamento nel privato e nell’isolamento. Come se soltanto dentro una micro bolla posso trovare un qualche briciolo di identità . Un circolo vizioso di cui possiamo cogliere in abbondanza altri segni. Ad esempio nella musica pop contemporanea. Musica fatta in cameretta, come ci ripetono in qualsiasi talent. Musica non suonata con gli altri, ma prodotta. E testi che non alzano quasi mai lo sguardo dal proprio ombelico, non interessati a narrare altro mondo che il proprio, il proprio malessere, la propria bolla. D’altra parte, che mondo potrebbero abitare gli adolescenti senza mondo che abbiamo generato? Non è soltanto la questione del sessismo spesso presente in questi testi, o della violenza o dell’omofobia, o di tutto ciò messo assieme. Anche questo è un sintomo del ripiegamento, non si sa quanto scelto o forzato. Se è molto complesso costruire una identità in genere, sempre lo è stato, oggi lo è un po’ di più, perché il terreno su cui seminare è sempre meno fertile e più avvelenato. Essere il ‘compagno di… ‘ può apparire come un ancoraggio irrinunciabile, pena lo smarrimento totale. Una angoscia intollerabile che probabilmente spinge a gesti estremi in personalità fragili e poco consistenti, per cui il rifiuto è ancora più che l’intollerabile ferita narcisistica, ma forse qualcosa di vissuto come annientamento radicale. Cosa che in misura diversa troviamo nel lavoro clinico quotidiano in tanti casi di rottura delle relazioni amorose, con proporzioni molto diverse ovviamente. La perdita dell’altro è sempre la perdita di una parte di se stessi, ma a volte coincidente con la fine del mondo possibile.
Arrivano però anche segnali positivi in mezzo a questo disastro, che la realtà è sempre complessa e molteplice. Anche i corpi sociali sviluppano i loro anticorpi, creando reti di scambio, di sostegno, di auto aiuto, come i gruppi che si sono spontaneamente formati, ad esempio, a Monreale dopo il trauma della sparatoria in piazza la sera della festa patronale. Gruppi in cui piangere i propri lutti, in cui esprimere le proprie paure e i sensi di colpa, in generale in cui condividere vissuti per sentirsi meno soli e smarriti, da cui probabilmente germoglieranno nuovi frutti.