“Come se mi fossi sentita privata di momenti”: Il trauma relazionale complesso e traumatizzazione del Sé: il controllo materno come forma di violenza relazionale
Riflessioni | Agosto 2025
Autore: Gabriella Papadia

“Ho riflettuto sulla violenza di certe dinamiche con cui sono cresciuta, dal silenzio punitivo al dover distruggere me stessa per essere amata. Fa male, ma sto facendo mie le parole che ci siamo dette nella scorsa seduta. Tanto quanto ho imparato ad odiarmi, adesso sto imparando ad amarmi”
(dai pensieri liberi di A. dopo un anno e tre mesi di trattamento)

Esiste una forma di violenza mascherata d’amore, una tra le tante, passibile di giustificazioni perché cresce in terreni credibili, tra le mura di casa, quella che agiscono le madri controllanti. Non è solamente controllo, è molto di più, è un incastro pericoloso che non ha come protagonisti solamente la madre ed il figlio, in questo scenario sono presenti i fantasmi del genitore, fantasmi violenti che si muovono sottecchi dentro le dinamiche della diade, che smette di essere tale e diventa una folla. Generalmente le madri in questione presentano uno stile genitoriale autoritario dove il controllo diventa l’unica modalità per stare in relazione con il figlio che di conseguenza non trova spazio libero per esprimere bisogni e desideri. La cura di questi, infatti, viene posta in secondo piano poiché non rappresentano esattamente ciò che vive nella mente rigida del genitore. Sappiamo bene cosa succede nel genitore quando il bambino reale e quello immaginario non coincidono: frustrazione, delusione delle aspettative, disconoscimento e quando può andare peggio l’abbandono emotivo. Per questi genitori l’investimento emotivo allucinato durante la gravidanza lascia il posto al nuovo scenario: un figlio che non è a sua immagine e somiglianza e che molto probabilmente non farà altro che deluderlo. Inizia così l’abuso relazionale dentro un’escalation di richieste trasparenti, quasi impalpabili, non parlate ma estremamente violente dove la dimostrazione d’affetto può concretizzarsi soltanto se il figlio si comporta come farebbe il genitore. Identificazione proiettiva, proiezione narcisistica e dinamiche controllanti: un cocktail letale. L’unico ed inevitabile esito sarà il formarsi di un bambino, un adolescente, un adulto che non ha mai sperimentato se stesso se non per realizzare le aspettative genitoriali. In terapia, per esempio, ci potremmo ritrovare di fronte ad un funzionamento graniticamente orientato sul Falso sé. La madre sperimenta se stessa come sufficientemente buona perché nel controllo comunque protegge il figlio dalle insidie del mondo e quest’ultimo diventa un oggetto iperinvestito narcisisticamente che molto probabilmente ondeggerà tra l’insicurezza perenne e tratti psicopatologici. L’unico movimento psichico possibile per il figlio diventa così il “Come tu mi vuoi a costo di non vivere veramente perché altrimenti smetto di esistere nella tua mente e tu mi abbandoni”. Ecco la violenza. Le madri che presentano personalità borderline non riuscendo a percepire i propri sentimenti e le proprie emozioni non sono in grado di orientare i figli in tal senso e questi a loro volta non saranno in grado né di accogliere né di capire le loro. Nella mia esperienza clinica spesso mi sono ritrovata di fronte pazienti adulti con altissimi livelli di vulnerabilità emotiva, totalmente incapaci di leggere sé stessi in termini di bisogni e desideri ma estremamente impegnati a capire quelli dell’Altro. Il danneggiamento emotivo porta questo tipo di pazienti a vivere perennemente nel senso di colpa, il pensiero di non essere mai abbastanza e mai all’altezza dell’Altro li divora. Vivono con la sensazione costante di essere in debito, elemosinano amore. Spesso presentano scarsa capacità introspettiva, faticano a “sentire” i propri bisogni e a trovare modalità sane e adattive per soddisfarli. D’altronde l’impegno è tutto lì, concentrato sull’esigenza di soddisfare i bisogni altrui come un tentativo continuo e allucinato di rispondere alla richieste materne. In tal senso, il ripetersi della violenza è autodiretto: “Danneggio me per non deludere te”. Questa forma di violenza non lascia lividi visibili sul corpo ma si muove come un veleno a lento rilascio inficiando lo sviluppo dell’identità. Non c’è nemmeno spazio per la fiducia. E così l’assenza di fiducia e del “non essere abbastanza” vengono veicolate attraverso il controllo, mascherate da cura e attenzione, giorno dopo giorno, meccanismi, questi, che rendono invisibili l’abuso relazionale. Per riportare un esempio, una mia paziente, A. 30 anni (figlia di una madre depressa e controllante e di un padre emotivamente assente e a sua volta controllato dalla moglie), è cresciuta con la convinzione che fidarsi degli altri fosse la cosa più sbagliata al mondo e che solo sua madre poteva essere detentrice e protettrice dei suoi segreti e delle sue paure. Quando A. era piccola e poi adolescente la madre le controllava l’alimentazione per poi regalarle critiche violente sul suo aspetto fisico, decideva con chi doveva relazionarsi (amiche e fidanzati, nessuno aveva scampo), le affidava il fratello più piccolo accertandosi che fosse una sorella responsabile. In compenso A. sviluppa presto sintomatologia legata ad anoressia nervosa e tic motori. Diversi studi hanno indagato la qualità delle interazioni alimentari tra bambini con anoressia nervosa e le loro madri dimostrando che bassa reciprocità diadica, intrusività materna, elevato conflitto interattivo, affetti negativi e mancanza di piacere caratterizzano i pattern interattivi alimentari tra le madri e i bambini con anoressia. In seguito la madre di A. proverà a controllare anche i tempi di un’eventuale gravidanza. Ciò che spinge A. ad iniziare il trattamento ha a che fare con il sentirsi “privata di momenti”, perché si sente in gabbia, perché si sente in colpa dell’odio che prova nei confronti della madre e del fratello, e in fin dei conti dell’odio che prova verso se stessa. Come si può provare amore per se stessi se nessuno ci ha mai visti? A tal proposito, la letteratura ci mostra come le madri che da bambine non si sono sentite viste, protette o amate possono sviluppare un attaccamento ansioso e cercare di evitare, a tutti i costi, che i propri figli “soffrano come hanno sofferto loro”. L’ipercontrollo del genitore, in questi termini, diventa un mezzo per mantenere un senso di sé coeso. In terapia i pazienti cresciuti come estensione del sé del genitore presentano una matrice psichica portata a saturazione dalla presenza del pensiero materno e presentano spesso vissuti legati a rabbia esplosiva/o intermittente poiché sono stati sottoposti a giudizi costanti sulle scelte personali (partner, lavoro, stile di vita), e sentimento di colpa massiccio per tutte le volte che hanno cercato di autodeterminarsi. Crescono come terreni violabili, chiunque può entrare, lasciare traccia e andare via. Quando l’imperativo materno grida: “se tu ti allontani per diventare te stesso, io mi svuoto”, ogni gesto di autonomia viene letto come una minaccia alla relazione simbiotica. In chiave psicodinamica si tratta spesso di una mancata individuazione, dove madre e figlio restano emotivamente “con-fusi” l’uno con l’altro. Il figlio non è più un soggetto separato, ma un oggetto funzionale alla riparazione delle ferite materne. È una spinta arcaica, questa, che nasce spesso dalle carenze affettive della madre. Potremmo leggere l’aggressività agita nella relazione con il figlio, quindi, come risposta al conflitto interno della madre. Nei casi più gravi assistiamo alla presenza del narcisismo maligno: questo tipo di costellazione patologica oltre ad essere letta come organizzazione difensiva può rappresentare una delle radici profonde del controllo materno, il più invasivo e manipolatorio. In questo caso, il bisogno di controllo non nasce solo da insicurezze o paure affettive, ma da una struttura di personalità centrata sul potere e la negazione dell’altro come soggetto autonomo. Quando il figlio resiste alla fusione, la madre fa esperienza del tradimento e della perdita di controllo. La violenza psicologica viene agita o in modo velato attraverso induzione della colpa, l’attivazione perenne della critica e la manipolazione affettiva o in modo esplicito tramite movimenti di svalutazione e silenzio punitivo. Sin dalle prime sedute con pazienti figli di madri controllanti, diventa possibile palpare la loro totale incapacità di mettere confini e di porre limiti tra loro e il mondo esterno. Il trauma relazionale vissuto da questi pazienti è spesso associato all’insorgenza del PTSD. In molti casi non si parla di PTSD “classico”, ma di trauma complesso legato a relazioni disfunzionali ripetute come nella teoria dell’attaccamento disorganizzato o nel modello di Janina Fisher. Secondo questa chiave di lettura, il trauma non è tanto “cosa è successo”, ma cosa non è stato possibile sentire o essere. Spesso i figli di genitori ipercontrollanti diventano adulti controllati. Si strutturano sul “trattenere” dove ogni spinta interna viene inconsciamente bloccata perché potrebbe passare al vaglio del controllo genitoriale. La finalità di un progetto psicoterapico potrebbe essere quella di perseguire il riconoscimento del trauma relazionale precoce attraverso il raggiungimento dei seguenti obiettivi: la ricostruzione di una memoria autobiografica coerente, la possibilità di differenziarsi psichicamente dalla madre, la riparazione del legame interno con l’immagine materna, lo sviluppo di confini interni stabili, la ricostruzione dell’autostima e di un Sé autonomo e desiderante. La possibilità di riuscire a superare la colpa e sposare la soggettivizzazione per questo tipo di pazienti è sfiancante, si sentono responsabili e artefici della decostruzione e della rottura del legame con il genitore abusante.

Prendendo in esame il modello del trauma complesso di J.Fischer vediamo come le parti interne di questi pazienti (la parte sopravvissuta che cerca di funzionare nonostante il trauma e si muove secondo evitamento, le parti protettive ipercritiche e orientate a compiacere l’Altro, le parti traumatizzate che presentano un blocco nel passato e afferiscono alle memorie traumatiche) sembrano perdere il dialogo tra loro. La relazione terapeutica diventa lo spazio dove diventa possibile l’integrazione delle parti del paziente e non luogo di elaborazione forzata. Studi psicoanalitici recenti mostrano come le esperienze traumatiche hanno il potere di influenzare la struttura e la funzione cerebrale, con implicazioni per la trasmissione intergenerazionale del trauma. Nell’analisi clinica è importante orientarsi attraverso i modelli dell’attaccamento e delle memorie emozionali, elementi basici nella formazione dell’identità e nella perpetuazione dei modelli traumatici. Riporto di seguito le parole di una mia paziente dopo un anno e otto mesi di trattamento: P. 38 anni docente abilitata al sostegno, cresciuta all’interno di una relazione diadica basata sul controllo. Il trattamento si è basato dapprima sul recupero delle memorie traumatiche e dei bisogni infantili non soddisfatti e inseguito sulla possibilità di perseguire un processo di integrazione tra questi e i desideri attuali. Il leitmotiv del percorso si è dispiegato sulla possibilità della paziente di potersi pensare capace di edificare confini, di lasciare andare i carichi emotivi e di fare spazio all’emotività, alla spontaneità e ai processi creativi.

Avevo bisogno di mettere spazio tra me e le cose, mi sentivo sommersa, come in apnea. Anche se sono fragile mi sento più forte, affronto le cose come se per la prima volta potessi dare priorità a quello che sento… E anche se ho una sbavatura, chissenefrega! Anche nelle difficoltà mi sento bene, il percorso che sto facendo è esattamente quello che devo fare. Ho pensato che sarei stata in grado di farlo… Sono curiosa di vedermi con un aspetto diverso. Mi sono aperta alle sensazioni che provo, non posso alleviare sempre le ansie altrui. Non ho mai dato peso alle mie emozioni. E sono stupita! È come se non avessi mai assaporato nulla, ho solo assaggiato. Sto accettando l’idea di poter scivolare, può succedere, posso cadere, non succede nulla

Bibliografia
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