“Sapete quei giorni, quando vi prendono le paturnie?” “Cioè la melanconia?” “No”[…].“La melanconia viene perché si diventa grassi, o perché piove da troppo tempo. Si è tristi, ecco tutto. Ma le paturnie sono orribili. Si ha paura, si suda maledettamente, ma non si sa di che cosa si ha paura. Si sa che sta per capitarci qualcosa di brutto, ma non si sa che cosa. Avete mai provato niente di simile?”.
Colazione da Tiffany – T. Capote, 1959
Chi non ha mai visto il film “Colazione da Tiffany” (1961), trasposizione cinematografica dell’ultimo romanzo di Truman Capote (1959), romanzo in cui una giovane donna, “Holly Golightly”, sfuggendo alla sua vita precedente, si ritrova in una New York degli anni ‘60 tra feste mondane e uomini facoltosi, alla ricerca di una vita lussuosa e patinata. Nei decenni “Holly” è stata recensita come “la gattina più eccitante che la macchina da scrivere di Truman Capote abbia mai creato…”, o una donna “sola, ingenua e un po’ impaurita”, o ancora “bizzarra, simpaticissima, commovente…e reale”.
È da quest’ultimo aggettivo, “reale”, che vorremmo partire per trattare la violenza relazionale, poiché solo attraverso la comprensione delle dinamiche alla base di storie reali di maltrattamento è possibile “pensare all’impensabile”, ovvero concepire che possa accadere che giovani donne, tanto quanto adulte o anziane, si ritrovino in dinamiche di sopraffazione e violenza.
Solo attraverso l’analisi dei processi disfunzionali e violenti è possibile comprendere come insegnanti, studentesse, commesse, imprenditrici, casalinghe, così come single, mamme, figlie, nonne, amiche, colleghe, possano vivere, anche per anni, sottoposte a regole e precetti da rispettare, devitalizzate da messaggi di squalifica, rifiuto e umiliazione, con offese dirette e indirette, con controllo del tempo e del danaro, con utilizzo del corpo per “sesso a chilometro zero”, sacrificandosi “…così poi lui si rasserena!”, accumulando svalutazioni della propria persona, delle proprie origini, del modo di essere madre o del proprio lavoro. È possibile che il proprio corpo diventi cimitero di cicatrici, “sfregi”, “segnetti” e sgraziati “ricami”, contribuendo alla costruzione di una rappresentazione di sé come “difettosa”?
Provando a spostare il vertice di osservazione, ci si chiede: Quand’è che arriva il momento in cui diviene possibile “dire l’indicibile”, rendendo pensabile la cura delle ferite più intime e profonde di sé? Forse solo quando queste donne “reali” fanno proprio il senso di quanto vissuto, significando il tipo di relazioni in cui si trovano o si sono trovate.
Certamente il processo narrativo delle storie vissute rappresenta un’esperienza clinica efficace. Il racconto della storia personale, familiare e relazionale, costituisce un mezzo attraverso cui spiegare, de-saturare e riorganizzare gli eventi della propria esistenza, creando una trama di elementi più coerentemente collegati. Il racconto di fatti traumatici, tuttavia, non costituisce un processo lineare, né immediato, bensì un processo di “andirivieni” che non può prescindere da interventi preparatori e/o di stabilizzazione, nella costruzione di un “prodotto sartoriale” unico, in cui “ago e filo” si muovono insieme nel riconoscimento di emozioni e sentimenti e nella rilettura di eventi, gesti e reazioni, tanto che la persona possa accedere a quote più ampie di consapevolezza circa quanto accadutole.
Generalmente in risposta allo stress cronico si osservano, in chi sopravvive alla violenza, reazioni di congelamento, fino a giungere ad una ibernazione emotiva, fino a spegnere i pensieri e le emozioni connesse al trauma, così che questo divenga inaccessibile al verbale. Anche quando si prova ad esporre quanto vissuto, la narrazione appare disorganizzata e frammentata, travolta da ricordi drammatici, improvvisi e discontinui. La comunicazione del trauma risente, altresì, di intensi vissuti di vergogna, umiliazione e colpa. Il celare o il non ricordare si connette, inoltre, all’inevitabile aleggiare di un aggressore, comunque avvertito come presente!
La complessità appena delineata impegna i terapeuti nella ricerca di tecniche alternative per l’espressione del trauma relazionale. Nella nostra esperienza clinica, sia nel lavoro con giovanissime che con donne adulte, sia in assetto individuale che nel setting gruppale sistemico (Giordano & Curino, 2013) [1], sia in contesto pubblico che privato, tra le tecniche utilizzate, uno spazio elettivo è rappresentato dalla libroterapia, dalla poetry therapy, dalla song therapy, dal photo langage e dalla movie therapy.
Le tecniche citate rappresentano un “filtro” mediativo e protettivo: l’espressione di risonanze e sofferenze viene codificata a partire da mappe narrative e immagini visive verosimili, ma meno intrusive e minacciose rispetto alla comunicazione verbale “diretta”. Si tratta di tecniche che facilitano il rispecchiamento, stimolano le emozioni, consentendo di riconoscersi nelle dinamiche violente di pattern ripetitivi. Tali tecniche assolvono funzioni trasformative (Beaulieu, 2006) [2] e catalizzanti la costruzione del cambiamento e la riorganizzazione della cartografia del proprio mondo interiore, reso caotico proprio dalle esperienze violente. Ogni tecnica trova dunque applicazione nello spazio dell’incontro terapeutico, un campo di sperimentazione e di scoperta che segna la relazione stessa di scambio.
Per la selezione dei materiali, quali romanzi, albi illustrati, poesie, racconti, novelle, filastrocche, monologhi, canzoni, fotografie, cartoline, film e cortometraggi, è possibile attingere ai contenuti più vari, con ampi spazi di scelta e creatività. I contenuti sostanziano tecniche a strutturazione “fluttuante”, continuamente modellabili a seconda dei casi. Questi elementi, tuttavia, non sono disgiunti dal mantenimento di una postura rigorosa circa la chiarezza degli obiettivi e dei temi/costrutti da trattare, calibrandoli alle diverse fasi del percorso clinico e alla consapevolezza circa l’intensità dell’impatto delle esperienze che si intende proporre.
Sicuramente tali tecniche possono essere “apprese” ma, proprio come tutte le tecniche che usano l’arte, esse non sono che un “mezzo” e i risultati che producono sono difficili da predire, poiché dipendono dalla “condizione di spirito” e dalla “fiducia” di chi le mette in opera. Il carattere “innovatore” dell’applicazione delle tecniche narrative rimanda essenzialmente alla funzione di “rimediare” alle “situazioni bloccate”: le azioni d’impatto clinico non emergono che dalla “voglia” del terapeuta di “tentare qualche cosa allorquando l’orizzonte sembra povero o vuoto, come un segnale che dal grigio delle onde emerge agli occhi del marinaio rivelando un senso, una direzione da seguire…” (Caillé e Rey, 2004) [3].
“Si dice che adesso, e non sia leggenda, In un’alba d’agosto la bella Cristalda risalga dall’onda A vivere ancora una storia stupenda”.
La leggenda di Cristalda e Pizzomunno – F. Gazzè, F. De Benedittis, M. Gazzè, 2018
Note
[1] Giordano C., Curino M. G. (2013) Terapia sistemica di gruppo, Alpes, Roma. [2] Beaulieu D. (2006) Tecniche d’impatto, Franco Angeli, Milano. [3] Caillè P., Rey Y. (2004) Gli oggetti fluttuanti. Metodi di interviste sistemiche, Armando Editore, Roma.