Violenza femminile sugli uomini: una prospettiva sistemica sulla dinamica relazionale e le sfide cliniche
Riflessioni | Agosto 2025
Autori: Alessandra Salerno - Raffaella Mineo

L’approccio sistemico alla violenza rappresenta una chiave di lettura fondamentale per cogliere la complessità delle dinamiche relazionali nei contesti in cui si manifesta. Quando la violenza è agita da una donna nei confronti di un uomo, tale prospettiva consente di andare oltre le narrazioni lineari e stereotipate, offrendo strumenti per comprendere pattern interattivi disfunzionali che spesso restano nell’ombra.

In ambito sistemico, la violenza non è mai un atto isolato, ma un segnale di disagio all’interno di un sistema relazionale alterato: un contesto dove i confini sono confusi, la regolazione emotiva è compromessa e i circuiti comunicativi tendono a ripetersi in modo patologico. La partner che agisce violenza occupa frequentemente una posizione di potere latente nel sistema, utilizzando comportamenti etero-aggressivi come strategie di controllo interpersonale e modalità di gestione dell’ansia sistemica attraverso meccanismi di triangolazione disfunzionale.

Nonostante la crescente attenzione dedicata alla violenza domestica, l’attenzione accademica e clinica si è concentrata prevalentemente sulla violenza maschile, lasciando spesso in secondo piano le forme, meno visibili ma non per questo meno impattanti, della violenza agita dalle donne. Tuttavia, l’evidenza empirica disconferma categoricamente l’assunto della rarità dell’aggressività femminile. Sebbene emerga una prevalenza statisticamente significativa dell’aggressività fisica maschile, le differenze inter-genere risultano moderate e sostanzialmente mediate dalla tipologia comportamentale oggetto di osservazione. Un elemento particolarmente critico riguarda i limiti metodologici delle ricerche stesse: i ricercatori spesso utilizzano categorie descrittive riferite a modelli comportamentali connessi esclusivamente all’abusante di genere maschile, rendendo difficile il riconoscimento di dettagli specifici del comportamento femminile. Questo bias metodologico contribuisce significativamente alla sottostima del fenomeno, impedendo di esplorare adeguatamente le dinamiche specifiche dell’abuso al femminile.

Quando si sposta il focus su forme meno visibili di aggressività — come quella verbale, relazionale o indiretta — il quadro cambia. In queste manifestazioni, le donne, fin dall’infanzia, risultano spesso più attive dei coetanei maschi. Pettegolezzi, esclusioni, diffusione di segreti o informazioni riservate sono strumenti che possono essere utilizzati per danneggiare la reputazione e le relazioni sociali dell’altro, in modo subdolo ma estremamente efficace.

La problematica assume connotazioni non esclusivamente cliniche ma sistemiche-culturali. Le rappresentazioni sociali perpetuano costrutti ideologici che naturalizzano l’aggressività maschile mentre patologizzano quella femminile, alimentando un doppio standard che giustifica o minimizza la violenza agita dalle donne, contribuendo alla sua invisibilità. Un effetto diretto di questo pregiudizio è la scarsa attenzione rivolta agli uomini vittime di violenza, spesso definiti vittime segrete. Le loro storie faticano a emergere, non solo nei dati statistici ma anche nei servizi di aiuto, dove scetticismo e derisione possono compromettere l’accesso alla protezione e alla cura. Solo recentemente la letteratura ha cominciato a riconoscere la possibilità che anche gli uomini possano essere vittime nelle relazioni intime.

Studi condotti sul tema della Intimate Partner Violence (IPV) hanno messo in luce una realtà ben più complessa e simmetrica di quanto si sia pensato in passato. Le ricerche di Straus, ad esempio, indicano che la forma più comune di violenza nella coppia è reciproca, e che la violenza agita dalle donne non è un’eccezione ma parte integrante dei pattern disfunzionali che si instaurano nella relazione.

Un altro nodo critico è rappresentato dalle traiettorie transgenerazionali: essere testimoni di violenza in età infantile aumenta significativamente il rischio di riprodurre modelli violenti da adulti. In questa prospettiva, anche la violenza agita dalle donne merita attenzione specifica, non solo per una questione di equità, ma perché affrontarla può avere ricadute importanti anche nella prevenzione della violenza maschile.

Sul piano clinico, appare necessario interrogarsi anche sulle “ragioni del rimanere” da parte degli uomini in relazioni violente. Se le donne spesso non riescono a interrompere il legame per ragioni economiche, isolamento sociale o colpevolizzazione, negli uomini entra in gioco un altro tipo di trappola: la pressione sociale a “resistere”, a non mostrarsi vulnerabili, a “sapersi imporre”. Per un uomo, lasciare una relazione violenta può essere percepito non come un atto di autodeterminazione, ma come una sconfitta.

Anche lo stalking subito dagli uomini è un fenomeno ampiamente sottostimato. Quando è una donna a perseguitare, spesso il comportamento viene interpretato come comprensibile, romantico o addirittura giustificabile. Di conseguenza, gli uomini tendono a minimizzare le molestie, riducendole a fastidi piuttosto che riconoscerle come minacce reali.

Tutti questi elementi ci restituiscono un quadro articolato e stratificato, che invita a superare ogni lettura dicotomica del fenomeno. Il modello sistemico ci aiuta a comprendere la violenza come processo relazionale e circolare, dove le polarità “aggressore-vittima” si alternano, si sovrappongono e si trasformano nel tempo.

Nel lavoro clinico, questo significa accogliere la complessità senza pregiudizi, esplorare la co-costruzione della dinamica violenta, riconoscere la sofferenza di tutte le parti coinvolte e intervenire non solo per proteggere, ma anche per comprendere, trasformare e restituire possibilità relazionali alternative.

Flessibilità cognitiva e violenza femminile: al via il nostro studio sulla percezione sociale

Presso il Dipartimento di Scienze Psicologiche, Pedagogiche, dell’Esercizio Fisico e della Formazione dell’Università degli Studi di Palermo, è in fase di avvio uno studio scientifico volto a esplorare la percezione della violenza agita da donne nei confronti degli uomini. L’obiettivo primario di questa indagine è analizzare come tale forma di violenza sia riconosciuta e interpretata all’interno di un campione eterogeneo di 500 partecipanti (250 studenti universitari e 250 individui esterni al contesto accademico, di età compresa tra 18 e 60 anni, con esclusione di soggetti con disturbi psichiatrici gravi), differenziati per genere ed età. L’obiettivo secondario consiste nel verificare se una maggiore flessibilità cognitiva predica un riconoscimento più accurato della violenza e nel confrontare la percezione della gravità e dell’attribuzione di responsabilità in scenari di violenza femminile, presentati attraverso vignette cliniche.

Le ipotesi principali che guidano questo studio:

  • I soggetti con maggiore flessibilità cognitiva riconoscono più facilmente comportamenti violenti agiti da donne;
  • Gli stereotipi sulla mascolinità influenzano la percezione della violenza agita da donne verso uomini in termini di minore gravità percepita;
  • Le variabili di genere e socioculturali accentuano i bias percettivi nel legittimare o minimizzare la violenza agita da donne

Lo studio utilizzerà, in tal senso, una misura della capacità di adattamento e flessibilità cognitiva (CFI – Cognitive Flexibility Inventory), una relativa alle credenze sulla mascolinità (BSS – Belief in Sexism Shift Scale), un questionario sugli atteggiamenti ambivalenti nei confronti della mascolinità (AMI – Ambivalent Masculinity Inventory). Si utilizzeranno altresì delle vignette cliniche che offrano scenari realistici di violenza femminile per valutare riconoscimento e attribuzione di responsabilità. Le vignette cliniche presenteranno situazioni di violenza psicologica, fisica, economica e sessuale agita da donne, variando caratteristiche dell’autrice (età, etnia, status lavorativo) e del contesto (presenza di testimoni, gravità dell’episodio) per osservare eventuali bias nell’attribuzione di colpa.

La ricerca “Riconoscere l’indicibile”, in sintesi, rappresenta un contributo empirico significativo per lo sviluppo di interventi educativi e formativi mirati a contrastare i bias di genere nella percezione della violenza, fornendo strumenti per professionisti della salute mentale e operatori sociali per una comprensione più completa e sfumata di questi fenomeni complessi.

Implicazioni cliniche

Nella pratica clinica, l’incontro con uomini vittime di violenza femminile presenta sfide specifiche. Frequentemente, questi pazienti si presentano in terapia per sintomi apparentemente slegati dalla violenza subita – “problemi di autostima”, ansia, disturbi del sonno – senza inizialmente rivelare la natura violenta della loro relazione. Solo dopo diverse sedute emerge come le partner possano utilizzare sistematicamente minacce di suicidio per esercitare controllo, alternando episodi di violenza fisica a periodi di riconciliazione emotiva. La vergogna e il senso di inadeguatezza mascherano spesso la reale dinamica abusiva, rendendo necessario un approccio clinico particolarmente attento e non giudicante.

Gli uomini vittime, inoltre, sviluppano meccanismi di coping specifici che complicano la diagnosi. L’ipercompensazione lavorativa diventa una strategia di evitamento: l’intensificazione dell’attività professionale serve a sfuggire all’ambiente domestico tossico e a mantenere un senso di competenza e controllo. Questo spesso porta a burnout e sintomi ansiosi che vengono erroneamente attribuiti allo stress lavorativo. La minimizzazione e l’inversione dei ruoli rappresentano altri ostacoli significativi. Il paziente tende a giustificare i comportamenti violenti del partner (“era sotto stress”, “non si rendeva conto”) e ad assumersi la responsabilità per le dinamiche abusive. Questa razionalizzazione protettiva rende difficile l’emersione della reale natura della relazione e richiede al clinico una particolare sensibilità nell’approccio esplorativo.

L’identificazione della violenza sugli uomini, quindi, richiede protocolli specifici che tengano conto delle resistenze maschili alla disclosure. L’utilizzo di domande indirette (“Molti uomini sperimentano difficoltà nelle relazioni…”) e la normalizzazione dell’esperienza aiutano a ridurre la vergogna associata al ruolo di vittima. L’osservazione clinica di indicatori comportamentali sottili – ipervigilanza, evitamento di argomenti specifici, reazioni fisiche durante la narrazione – fornisce informazioni preziose per orientare l’intervento.

L’approccio terapeutico deve essere necessariamente integrato e trauma-informed. La ristrutturazione cognitiva delle credenze disfunzionali sulla mascolinità e vittimizzazione si accompagna al lavoro sui sensi di colpa e sulla responsabilizzazione inappropriata. L’approccio sistemico integra la ristrutturazione cognitiva delle credenze disfunzionali sulla mascolinità con il lavoro sui confini interpersonali e sulla differenziazione del sé. La vittima impara a riconoscere come i propri tentativi di “salvare” il partner violento perpetuino il ciclo abusivo, sviluppando gradualmente la capacità di mantenere la propria posizione emotiva senza essere risucchiato nelle dinamiche di controllo.

Conclusioni

Tutti questi elementi ci restituiscono un quadro articolato e stratificato, che invita a superare ogni lettura dicotomica del fenomeno. Il modello sistemico ci aiuta a comprendere la violenza come processo relazionale e circolare, dove le polarità “aggressore-vittima” si alternano, si sovrappongono e si trasformano nel tempo.
Nel lavoro clinico, questo significa accogliere la complessità senza pregiudizi, esplorare la co-costruzione della dinamica violenta, riconoscere la sofferenza di tutte le parti coinvolte e intervenire non solo per proteggere, ma anche per comprendere, trasformare e restituire possibilità relazionali alternative.

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