Dell’angoscia e della speranza
Riflessioni | Novembre 2025
Autore: Maria Laura Mastropaolo

Si sta come
d’autunno
sugli alberi
le foglie.
Giuseppe Ungaretti

La Speranza è quella cosa piumata
che si viene a posare sull’anima,
canta melodie senza parole,
e non smette mai.
Emily Dickinson

Nel 1915 Freud scrive un testo dal titolo Caducità [1]. Si tratta di una breve ma intensa riflessione in cui Freud accosta l’incanto e lo stupore per la straordinaria bellezza del mondo a un senso di profonda angoscia, generato dalla consapevolezza della finitudine e della transitorietà delle cose. Tutto ciò che è bello e vivo è destinato a morire. Egli deborda così dai confini della clinica per inoltrarsi verso l’orizzonte del senso dell’esistenza, della sua fragilità e della capacità soggettiva di tollerare il limite che la vita reca con sé. Secondo la sua tesi, è la transitorietà delle cose e la loro precarietà a renderle così dense di bellezza ed è questo che ne accresce il valore. Ciò che fa resistenza è un “sentimento luttuoso”, inteso come “ribellione psichica”, alla caducità dell’esistenza. Il lutto è un “enigma”, continua Freud, e il dolore che si accompagna al distacco dagli oggetti amati è inspiegabile. Quando questo “sentimento luttuoso” impedisce il disinvestimento libidico dagli oggetti perduti si trasforma in melanconia [2]. L’“ombra dell’oggetto” cade sull’Io e la vita stessa sembra non avere più significato alcuno. Questa constatazione a cui il melanconico dolorosamente approda non è del tutto priva di fondamento. L’esistenza soggettiva è il risultato di un’articolata casualità che la priva di qualunque scopo predeterminato. Ogni vita diviene “umana” e acquisisce un significato solo grazie all’incontro con un Altro che, con funzione materna, la strappa al puro stato vegetativo.

Le malattie fisiche e psichiche, la morte come tappa ineludibile, la perdita delle persone amate, i fallimenti e le delusioni risvegliano in ognuno di noi interrogativi sull’esistenza e ci pongono al cospetto della sua precarietà e strutturale insensatezza.

Quando la riflessione di Freud si sposta sul dramma e sull’ondata distruttiva della guerra, egli rimanda a una dimensione collettiva del lutto e assume un significato quanto mai attuale. In una dinamica presa in una coazione a ripetere, la bellezza della vita e del mondo che la accoglie subisce ancora oggi ferite profondissime. L’impatto con i conflitti mondiali di cui Freud è stato testimone ha rafforzato le evidenze del suo lavoro clinico: la pulsione di morte abita l’umano quanto il desiderio di vita [3]. Questa rivelazione scabrosa dimostra come le azioni umane si spingano sempre oltre il principio di piacere. I drammi delle singole vite e gli scenari sociali attuali non fanno altro che rivelare la forza di una pulsione di morte che resiste al senso. Nell’attuale società globalizzata e iperconnessa, lo sterminio di intere popolazioni, la violenza efferata, le guerre, le prevaricazioni, la mercificazione di esseri umani, le discriminazioni razziali, la costruzione di nuovi muri, le catastrofi ambientali e i cambiamenti climatici causati dallo sfruttamento sconsiderato delle risorse naturali rappresentano fattori che si insinuano nelle esperienze personali, acuendo il senso di instabilità e di incertezza. La pandemia ne ha offerto un’ampia dimostrazione, imponendoci di riconoscere la fragilità della vita e il valore fondante del legame che unisce gli esseri umani tra loro e all’ambiente in cui vivono. Un sentimento diffuso e latente di angoscia ha iniziato così a incidere sulle nostre vite. Come il pensatore Byung Chul Han discute in un recente testo [4], l’angoscia getta un’ombra cupa e mortifera sull’esistenza dell’uomo contemporaneo. La spinta all’individualismo, alla competizione, alla performance sono correlati all’emergenza dell’angoscia che, aggirandosi “come uno spettro” [5], sgretola i legami sociali, il senso di solidarietà, l’empatia, la condivisione. Le istituzioni a tutti i livelli già da tempo non sono in grado di arginare l’angoscia né la spinta distruttiva che sembra essere sdoganata dalla contemporanea dissoluzione del senso del limite e dell’interdizione, spiegando così in buona parte il fenomeno complesso della violenza di cui la cronaca ci fa un resoconto quotidiano.

La psicologia contemporanea, affrancandosi dalle derive del puro scientismo che ne ha caratterizzato gli albori, oggi pone a suo fondamento la passione per l’umano e si connota per questo come disciplina a servizio dell’“umanità” in quanto dimensione dell’esistere irretita in un eterno e insanabile conflitto con tra desiderio di vita e spinte distruttive. La psicologia non può escludere questa ambivalenza. Da una prospettiva più che mai realistica, essa è chiamata a contribuire alla creazione di condizioni che consentano non tanto di sopprimere le pulsioni distruttive, ma di attenuarne la portata a favore della possibilità di costruire orizzonti di senso a livello individuale e di comunità, a partire dalla cura dei legami familiari, sociali e culturali al fuori dei quali il senso si disperde e le spinte vitali si depotenziano.

Quale “postura” è in grado di sostenere e orientare questo prezioso servizio?
“Contro la società dell’angoscia”, Han invita a riscoprire una disposizione affettiva, oggetto di una sostanziosa riflessione filosofica, che è rappresentata dalla speranza. Essa è intesa non come una visione ottimistica e positiva al servizio della società della performance [6], che mira a “migliorare” il sé, a negare le difficoltà della vita, a neutralizzarne le contraddizioni, a esorcizzare l’esperienza della perdita. La speranza è qui intesa come un atteggiamento che non travalica l’angoscia, ma che emerge dall’angoscia stessa, dall’ “abisso” della disperazione, dal “collasso” del senso [7], dalla melanconia che attraversa il nostro tempo. Essa emerge dalla negatività e si pone di contro come una vera e propria fede nel senso. La speranza è ciò che apre al futuro, inteso non solo come dimensione temporale, ma soprattutto come un “venire-al-mondo”. È quella forza propulsiva che ispira e guida azioni in grado di creare significati e di ricostruire la dimensione del “Noi”, di rinsaldare i legami, di tornare a pensare l’uomo non semplicemente come una pedina funzionale al sistema della produzione e del consumo, ma come un essere per la relazione. Se l’angoscia è l’“anticipazione della morte”, la psicologia può adottare la speranza in quanto pensiero vivo “al di là della morte”, che “anticipa” ciò che ancora può avere vita [8].

Provando a sintetizzare le conclusioni di Han, riconduco tutto questo alle riflessioni sulla Caducità di Freud. Il lutto ci porta a disinvestire da ciò che abbiamo perduto perché non c’è un altro destino per le cose che amiamo. Ma questa non è una rinuncia definitiva. Una risoluzione del lutto ci induce a reinvestire su altri oggetti d’amore con slancio vitale.
L’umile tentativo di parafrasare l’eleganza narrativa di Freud mi pare tuttavia privare di potenza le sue parole. Pertanto, concludo citando testualmente le ultime frasi del suo breve testo in cui fa convergere il destino degli individui e dei popoli e dei valori della civiltà.

“C’è da sperare che le cose non vadano diversamente per le perdite provocate da questa guerra. Una volta superato il lutto si scoprirà che la nostra alta considerazione dei beni della civiltà non ha sofferto per l’esperienza della loro precarietà. Torneremo a ricostruire tutto ciò che la guerra ha distrutto, forse su un fondamento più solido e duraturo di prima.” [9]

Che questa speranza di Freud sia ancora oggi la nostra speranza e muova i nostri passi.

Note

[1] Freud, S. Caducità, (1915), in Opere, vol, 8, Boringhieri, Torino, 1989, pp.173-176
[2] Freud, S. Lutto e melanconia (1917), Boringhieri, Torino, 1979
[3] Freud S. Al di là del principio di piacere (1920), Boringhieri, Torino, 1979
[4] Han, Byun Chul, Contro la società dell’angoscia. Speranza e rivoluzione. Einaudi, Torino, 2025
[5] Ibidem, p. 7
[6] Illouz, Eva, Modernità esplosiva, Einaudi, Torino, 2025
[7] Han, Byun Chul, Contro la società dell’angoscia. Speranza e rivoluzione, cit. p.49
[8] Ibidem, p. 102
[9] Freud, S. Caducità, (1915) p.176

Condividi su