Il dolore della non-memoria: elaborare il lutto perinatale
Esperienze cliniche | Novembre 2025
Autore: Laura Cameli

Il lutto, in tutte le sue forme, ci mette a confronto con la nostra parte più vulnerabile. Ci riporta ai confini del nostro controllo, all’impossibilità di dominare vita e morte, al fatto che l’essere umano è sempre attraversato da una forza che non costruisce, ma dissolve.

Freud definiva questa forza “pulsione di morte”, mentre Lacan la riconosceva come un reale che eccede ogni possibilità di simbolizzazione.

Nelle cronache quotidiane, la incontriamo costantemente: femminicidi, suicidi giovanili, tragedie familiari, incidenti sul lavoro. Ogni volta che la spinta autodistruttiva si manifesta, essa non colpisce solo un individuo, ma lacera un intero tessuto: la famiglia, la comunità, la società. Esistono, tuttavia, forme di lutto meno visibili, che non trovano parole né rituali.

Sono lutti negati. Si tratta dei lutti perinatali, che avvengono attorno alla nascita o, talvolta, ancor prima che la vita si manifesti.
Questi sono lutti che non hanno un corpo da piangere, un nome da pronunciare, un funerale che li sancisca. Spesso rimangono intrappolati in un silenzio che diventa insostenibile.

In tali situazioni, il dolore rischia di trasformarsi in un buco nero psichico. Non è soltanto la perdita del bambino a generare sofferenza, ma anche l’impossibilità di vivere pienamente quel lutto, di condividerlo, di vederlo riconosciuto dagli altri.

La donna – e spesso, in questo, anche la coppia – resta sola, in una condizione sospesa tra ciò che era atteso e ciò che non sarà. Melanie Klein ci ricorda che il lutto implica la possibilità di riparazione simbolica: dare forma e parola a ciò che non c’è più.

Senza questo processo, la perdita si traduce in colpa, autoaccusa, frammentazione. La spinta autodistruttiva, allora, non si manifesta solo nell’evento traumatico in sé, ma anche nella sua rimozione sociale: nel negare valore a quel dolore, si amplifica il rischio che esso si rivolga contro chi lo porta.

Marta ha 40 anni. È sposata, madre di un bambino di tre anni. Dopo mesi di tentativi, resta nuovamente incinta. Nonostante il desiderio iniziale, fin da subito la gravidanza non la fa gioire: emergono dubbi, paure, pensieri intrusivi. Teme di non avere energie, di non poter più dedicare tempo al figlio maggiore, di non essere all’altezza. Questo senso di inadeguatezza cresce nel corso dei mesi, fino quasi a pentirsi della decisione di cercare un secondo figlio.

Alla ventesima settimana decide di sottoporsi all’amniocentesi: l’età avanzata la convince che sia una scelta necessaria. Il risultato è devastante: il feto presenta gravi malformazioni.

Dopo giorni di smarrimento e colloqui medici, Marta e il marito decidono di interrompere la gravidanza, secondo la legge 194 art. 6.

Il giorno dell’intervento Marta non fa domande, non vuole sapere nulla del corpo della figlia. Desidera solo che finisca in fretta, liberarsi del peso. Ma nei giorni successivi qualcosa cambia. Le lacrime diventano incontenibili, il corpo si irrigidisce, compaiono dolori e insonnia. Non riesce a trovare pace. Il marito cerca di rassicurarla: “Era la scelta migliore”. I familiari minimizzano: “Non piangere, sei fortunata ad avere già un figlio”. Alcuni, con brutalità, le ricordano i suoi dubbi iniziali: “Forse è stato meglio così, non lo volevi davvero!”.

Marta si sente trafitta. Non solo ha perso la figlia, ma nessuno le riconosce il diritto di soffrire. Inizia a ripetere tra sé: “Non l’ho amata abbastanza, non ho mai voluto davvero conoscerla”. È un pianto che si avvicina alla disperazione, un dolore senza appiglio.
Quando Marta arriva in terapia, porta con sé soprattutto il senso di colpa: la convinzione di non essere stata una madre degna, di aver tradito la propria bambina e di non meritare perdono. Ma ciò che emerge progressivamente è un altro aspetto: il suo dolore non ha trovato alcun riconoscimento.

Il corpo della figlia è scomparso senza traccia. Nessuno le ha detto dove fosse stato portato, se fosse stato sepolto. È un lutto che non ha corpo, non ha segno, non ha parola.
In terapia, il primo passo è stato permettere che Marta potesse pronunciare ciò che fino a quel momento era stato rimosso. Nominarla come “mia figlia”, darle un posto nel discorso. È un passaggio difficile, perché ogni parola riapre il dolore, ma allo stesso tempo lo rende pensabile.

Con il tempo, Marta inizia a raccontare i suoi sogni. Nei primi, non compare la figlia ma emerge un senso di colpa senza nome che traspare simbolicamente. Poi, lentamente, quella figura comincia a cambiare: nei sogni compaiono dettagli più vividi. È il lavoro simbolico che prende forma: il lutto non è più solo colpa, ma memoria.

Il momento decisivo avviene quando Marta decide di compiere un rituale simbolico: un piccolo funerale, celebrato privatamente. Prepara un fiore, scrive una lettera, accende una candela. Quel gesto semplice diventa atto di riparazione, restituisce alla figlia un posto nella memoria e a lei la possibilità di dirsi madre, nonostante la perdita. È lì che la spinta autodistruttiva – che fino a quel momento prendeva la forma di pianti inconsolabili, insonnia, autoaccusa – inizia lentamente a trasformarsi in qualcosa di diverso: un legame intimo, fragile ma possibile, con la figlia perduta.

La storia di Marta dimostra chiaramente che il lutto perinatale non è mai solo una questione privata. È un trauma che coinvolge il corpo della donna e al tempo stesso penetra il tessuto sociale che la circonda.

Quando questo lutto non viene riconosciuto, quando gli ospedali e i servizi sanitari non offrono parole, rituali o percorsi di sostegno, ciò che rimane è un vuoto devastante.
L’esperienza clinica ci insegna che non si tratta solo di “superare” il dolore, ma di trasformarlo. E questa trasformazione è possibile soltanto se al dolore viene riconosciuto un posto: nel discorso, nei gesti, nei rituali, nella memoria condivisa.

Per questo motivo è urgente che le istituzioni sanitarie e sociali si facciano carico anche di questi lutti invisibili, offrendo protocolli che permettano ai genitori di salutare il bambino, di ricevere notizie sulla sua sepoltura, di accedere subito a un sostegno psicologico. Come psicologhe e psicologi, abbiamo una doppia responsabilità: clinica, nel dare spazio al soggetto per nominare e simbolizzare la perdita; e sociale, nell’affermare il diritto al riconoscimento di lutti, che, se non trovano parola, si traducono in silenzi distruttivi.

Quando invece la perdita trova un posto, la spinta autodistruttiva non scompare, ma può trasformarsi. Il lutto, da ferita muta e devastante, diventa testimonianza viva: memoria che unisce, resistenza che salva, possibilità di continuare a vivere senza cancellare ciò che è stato. L’attività consultoriale in tal senso può configurarsi come spazio di riconoscimento e ascolto in cui il dolore diventa parola condivisa e la parola acquista forma piena. All’interno del consultorio familiare il lutto perinatale può trovare ascolto, può essere accolto e trasformato, per restituire dignità all’esperienza affettiva dei genitori.

Bibliografia

Cozza, G. (2016). Quando l’attesa si interrompe: Il lutto perinatale. Milano: FrancoAngeli
De Montis, P., Ravaldi, C., & Vannacci, A. (2009). Affrontare il lutto perinatale. Pisa: IperEdizioni.
Freud, S. (1920).  Al di là del principio di piacere. Torino: Bollati Boringhieri (ed. it. 1970).
Klein, M. (1937). Amore, colpa e riparazione. In M. Klein, Opere (Vol. 1, pp. 290-328). Torino: Bollati Boringhieri (ed. it. 1976).
Lacan, J. (1974). Il Seminario. Libro XI: I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi. Torino: Einaudi.
Ravaldi, C. (2013). La morte in attesa: Assistenza e sostegno psicologico nel lutto in gravidanza e dopo il parto. Pisa: IperEdizioni.

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