La morte si sconta vivendo: il trauma collettivo dell’umanità
Riflessioni | Novembre 2025
Autore: Valerio Bonanno

Quando Thanatos si incarna nella quotidianità smette di essere concetto astratto e diventa eco che ci attraversa, memoria che ritorna, presenza che si insinua nel rumore di sottofondo delle esistenze comuni. Ciò che vediamo e viviamo non è solo cronaca ma trauma collettivo che domanda strumenti nuovi nella clinica, nel sentire, nel ricordare, nell’agire. Lo abbiamo visto chiaramente il 22 settembre e il 3 ottobre, quando un fiume di persone è sceso in piazza per denunciare la violenza che si consuma in Medio Oriente e dare voce al dolore soffocato. È il segnale che la psiche collettiva non può restare muta ma chiede espressione. Non è diverso da quanto osserva Freud in Considerazioni attuali sulla guerra e la morte (1915), che ricorda come la guerra disveli ciò che la civiltà tenta di celare: impulsi primordiali, pulsioni distruttive, spettri che mettono in crisi l’illusione del progresso. Non è solo un crollo politico o militare ma una frattura interiore. L’individuo viene esposto al sofisma irrisolto di rifiutare la propria mortalità e, al contempo, alimentare la distruttività che sembra confermarla. Non dissimile la strada di Jung, che in Liber Novus (1913-1930) percorre un sentiero complementare. Le sue visioni e i suoi simboli non sono solo esperienze interiori: anticipano un crollo collettivo. L’inconscio, tramite archetipi e immagini potenti, diventa specchio e anticipazione del tumulto storico. La psiche diventa un sismografo emotivo che registra le fratture del mondo. Entrambi scrivono in un’epoca di tensione, fiutando la catastrofe imminente posta non come causa, ma come manifestazione esterna del profondo disordine e squilibrio interiore individuale e collettivo, un “vorticoso oscillare dello psichico” che oggi riconosciamo immutato. Qui la memoria dovrebbe agire come antidoto e trasformare il trauma in consapevolezza condivisa; ma ciò che dovrebbe immunizzare si rivela fragile. Auschwitz resta ferita aperta del Novecento, scossa radicale della civiltà europea. Il dolore di un popolo non è bastato a evitare che un altro popolo vivesse oggi, un destino che, pur non sovrapponibile, risuona nella stessa grammatica di violenza e disumanizzazione. La Palestina è il luogo in cui Thanatos opera la coazione a ripetere con medesimi abusi e orrori, crescendo generazioni intere in un orizzonte di distruzione.

Studi recenti (Danieli, 1998; Al-Krenawi, 2022) mostrano come lo shock della guerra e dell’occupazione militare si trasmetta transgenerazionalmente, incidendo sullo sviluppo emotivo infantile e impedendo la costruzione di narrazioni di futuro. Il conflitto produce cicli infiniti in cui il dolore non è elaborato ma reiterato. È trauma collettivo perché non tocca soltanto chi lo subisce direttamente: intacca la coscienza di chi osserva, incrina il senso stesso dell’umanità. Bar-Tal (2007) sottolinea come la memoria condivisa in contesti di guerra si fossilizzi su una visione vittimistica che impedisce processi di riconciliazione. La tragedia è che il ricordo dell’Olocausto, triste pilastro etico e politico del secolo scorso, non si sia tradotto in garanzia contro il ripetersi della logica della sopraffazione, in un paradosso crudele dove la memoria di un delitto non ha generato prevenzione, ma convive con nuove forme di violenza: come può la vittima di ieri essere il carnefice di oggi?

Freud e Jung ci hanno fornito gli strumenti per leggere la dimensione interiore del trauma, Alessandro De Filippo si interroga sul mutamento del simbolico. In Idioteque. L’11 settembre nell’immaginario cinematografico dell’Occidente (2011) e Apocalypse When? l’autore mostra come l’attentato alle Torri Gemelle abbia inaugurato una nuova stagione dell’immaginario collettivo. Il cinema diventa archivio e laboratorio di simboli: vampiri, zombie, alieni non sono solo figure di genere, ma maschere dell’alterità nemica, metafore di un reale mostruoso. Il perturbante non è più soltanto vissuto, ma continuamente riprodotto, trasformato in mito contemporaneo. Televisione e cultura seriale post-11 settembre, convertono la violenza in spettacolo, con un insieme di immagini che colonizzano la memoria desensibilizzandoci. Accanto a questa migrazione allegorica, alcuni autori affrontano invece il tema in forma diretta. Molto forte, incredibilmente vicino (Jonathan Safran Foer 2005; trasposizione cinematografica Stephen Daldry 2011) mostra il lutto attraverso lo sguardo di un bambino che tenta di ricomporre la morte del padre nell’attentato delle Torri. Qui lo shock non è allegoria, ma ferita intima innestata nella vita familiare. Un parallelismo che pone da un lato l’immaginario che sublima e trasfigura, dall’altro la ferita sotto la lente, resa dicibile. In entrambi i casi il trauma si fissa come nodo simbolico: il ricordo spettacolarizzato coesiste con il dolore reale delle vittime. Un lutto sospeso: l’immagine resta, la sofferenza corporea rimane fuori campo. Con il tempo, questo invisibile diventa tangibile ma distante, i conflitti entrano nelle nostre case attraverso gli schermi, le tragedie saturano la nostra mente ma raramente trovano spazio in rituali condivisi. Il lutto collettivo resta senza corpo, senza luogo, né rito. L’abbondanza di immagini produce un effetto incongruente: più siamo esposti, meno sentiamo. L’anestesia diviene difesa psichica collettiva, ma senza parole e rituali condivisi il dolore si cristallizza e si trasforma in veleno silenzioso, impedendoci di collocarlo in uno spazio simbolico che lo renda elaborabile. Qui si apre il nodo centrale della memoria: il problema non è solo ricordare i fatti, ma come li ricordiamo. Bohleber (2007), in Remembrance, Trauma and Collective Memory, sottolinea che la memoria traumatica non è mai neutra: può essere repressa, deformata, sequestrata dal potere o dai media e quando accade, il dolore non si metabolizza, ma resta congelato, in attesa di riemergere sotto forme ancora più distruttive. La cultura contemporanea rischia di sostituire la carne con il simbolo, adulterando la memoria che ricorda il crollo delle Torri più che i corpi, l’esplosione più che la sofferenza. Il “mai più” si riduce a slogan. Arrivando anche a dover definire “Bambino”.

Di fronte a questo, qual è la nostra responsabilità professionale? Non basta confinare il lavoro alla stanza di terapia. Gli psicologi devono diventare custodi del sentire collettivo, assumersi la responsabilità di guidare l’elaborazione nei luoghi pubblici e negli spazi culturali per creare contesti in cui la memoria non sia ricorrenza, ma vissuto condiviso. Responsabilizzare significa nominare l’ombra, trasformare angoscia in coscienza, silenzio in parola, dolore in impegno. De Filippo ci ricorda che chiedersi “quando” avverrà l’apocalisse è un atto politico ed etico: impedisce che la catastrofe sia consumata come spettacolo. Freud, Jung, Bohleber, Danieli e Bar-Tal ci mostrano che lo shock non superato genera crepe che si trasmettono e che intaccano la comunità. Non possiamo pensare Auschwitz come evento chiuso, né l’11 settembre come frattura metabolizzata. La Palestina è un trauma che non appartiene al passato, ma si rinnova nel presente. È collettivo e la sua elaborazione richiede strumenti nuovi, condivisi, capaci di trasformare memoria in azione etica. Altrimenti Thanatos continuerà a trovare casa nelle nostre istituzioni, nelle guerre, nei silenzi. Riprendere la tessitura della memoria significa ridare senso al dolore, ricostruire comunità, trasformare il lutto in forza vitale.

Bibliografia

Freud, S. (1915). Considerazioni attuali sulla guerra e la morte.
Jung, C. G. (2009). Liber Novus. Milano: Bollati Boringhieri.
Bohleber, W. (2007). Remembrance, Trauma and Collective Memory. Int. Journal of Psychoanalysis.
Danieli, Y. (1998). International Handbook of Multigenerational Legacies of Trauma. Springer.
Bar-Tal, D. (2007). Sociopsychological foundations of intractable conflicts. American Behavioral Scientist.
De Filippo, A. (2011). Idioteque. L’11 settembre nell’immaginario cinematografico dell’Occidente. Torino: Kaplan.
De Filippo, A. (2014). Apocalypse When?. Kaplan.
Al-Krenawi, A. (2022). Psychology in the Context of the Israeli-Palestinian Conflict. Springer.

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