Dal lutto collettivo alla lotta pubblica: microprocessi psicologici della radicalizzazione violenta
Riflessioni | Novembre 2025
Autore: Luca Reforgiato

Quando la morte e la distruzione colpiscono a livello collettivo, il dolore si trasforma in una ferita sociale che lacera il senso stesso dell’umano. Guerre, genocidi e tragedie quotidiane espongono la fragilità radicale del Sé, innescando un Lutto Simbolico che la comunità fatica a elaborare. È in questa terra fertile di perdita e frustrazione che possono affondare le radici della radicalizzazione violenta. Il radicalismo, inteso come costruzione ideologica e identitaria, può rappresentare una risposta legittima a condizioni di oppressione, un tentativo di ricostruzione del Sé e del legame sociale. La violenza, invece, è una manifestazione comportamentale distruttiva, espressione di una deriva patologica che si attiva quando il dolore non trova contenimento. I microprocessi psicologici qui analizzati descrivono proprio questa transizione: dalla paralisi emotiva del lutto collettivo all’aggressività agita, dove l’azione violenta sostituisce il lavoro psichico. La radicalizzazione violenta si rivela così un Acting Out Trasformativo: un disperato tentativo di convertire l’aggressività congelata del dolore in una missione esterna.

Il trauma e la Crisi del Senso Ontologico

L’esposizione al trauma – che si manifesti sotto forma di guerre, genocidi o tragedie sociali prolungate – impone una frattura radicale nell’esperienza umana, minando non solo la sopravvivenza fisica, ma soprattutto l’integrità psicologica e il senso di continuità. Questa Distruzione Collettiva innesca non tanto un lutto nel senso classico della perdita di un individuo, quanto piuttosto un Lutto Simbolico Collettivo (Volkan, 2004). L’oggetto della perdita, in questo contesto, è la sicurezza ontologica stessa e l’affidabilità della Visione del Mondo condivisa. Viene meno la fede nell’ordine sociale, nella giustizia e nella prevedibilità degli eventi, elementi essenziali per la regolazione emotiva e la strutturazione del Sé. Il trauma collettivo induce un gruppo a sperimentare una profonda Regressione Narcisistica (Krystal, 1988), in cui la precedente fiducia nella propria resilienza e nel proprio sistema valoriale si dissolve. Il gruppo si ritrova in uno stato di estrema vulnerabilità e impotenza, un’implosione del senso di potere che destabilizza l’intera struttura psichica. La cronaca quotidiana di eventi traumatici e improvvisi amplifica questa sensazione, esponendo la fragilità dell’essere umano e la sua intrinseca non-onnipotenza. Tale frammentazione interna, alimentata dal contatto costante con la distruzione, è il terreno fertile su cui possono emergere risposte radicalizzate, che talvolta si estremizzano in forme distruttive, fungendo da illusoria compensazione alla perdita di coesione.

L’Impasse Elaborativa e la Proiezione Ideologica

Di fronte al dolore del Lutto Simbolico Collettivo irrisolto, la psiche esperisce un Trauma della Perdita che si traduce in una profonda impasse elaborativa. La vasta perdita della sicurezza fondamentale è troppo insostenibile per essere mentalizzata, portando l’aggressività e la sofferenza a restare “congelate” (Bowlby, 1980). L’energia distruttiva deve trovare una scarica esterna per prevenire il collasso interno. In questo contesto, il pensiero radicale può emergere come tentativo di ricostruzione identitaria e di senso, offrendo una narrazione alternativa alla frammentazione. Tuttavia, quando il dolore non trova contenimento e la vulnerabilità del Sé collettivo viene strumentalizzata, si attivano meccanismi difensivi primitivi come la Scissione Morale (Klein, 1946). Il mondo viene polarizzato in modo netto: il Sé idealizzato (il gruppo puro, sofferente e vittimizzato) e l’Altro demonizzato (il Nemico Assoluto). Questo Nemico diventa il contenitore proiettivo di tutta l’aggressività e della colpa per la catastrofe subita (Volkan, 2004). Tale dinamica difensiva è potenziata dalla deumanizzazione, un meccanismo socio-cognitivo che disattiva l’inibizione morale e rende l’Altro non un essere umano, ma un’entità da eliminare (Bandura, 2002). È in questo passaggio che la radicalizzazione può degenerare in violenza: l’ideologia non è più solo pensiero critico o oppositivo, ma diventa apparato narrativo totalizzante, il Mito Radicalizzato (Crenshaw, 2011), che riempie il Vuoto di Senso lasciato dal lutto e giustifica l’aggressione. È proprio su questa vulnerabilità emotiva e sulla disperata ricerca di significato che si inseriscono figure e strutture manipolatrici, le quali strumentalizzano la fragilità del Sé collettivo per incanalare il dolore in obiettivi di lotta e potere. La radicalizzazione violenta, quindi, non è semplicemente l’adozione di una dottrina, ma l’istituzionalizzazione di una difesa psichica contro la disperazione, la quale promette un mondo in cui la giustizia è ripristinata e il Sé collettivo riacquisisce illusoriamente l’onnipotenza perduta attraverso l’azione distruttiva.

L’Acting Out della Sofferenza: La Lotta Pubblica

In alcuni casi, l’adesione alla Lotta Pubblica rappresenta l’esito comportamentale della radicalizzazione violenta, convertendo la paralisi emotiva in azione aggressiva. Per l’individuo frammentato dal lutto collettivo, il Gruppo Radicalizzato può offrire una struttura rigida e totalizzante, un contenitore che l’Io non riesce più a costruire autonomamente. Questo avviene tramite il Microprocesso di Iper-identificazione (Freud, 1921): l’Io, percepito come debole e vulnerabile, si fonde con l’ideale del gruppo o del leader, acquisendo una coesione identitaria sostitutiva e patologica. Quando il dolore non viene mentalizzato e il contenimento sociale fallisce, la sofferenza non elaborata può manifestarsi attraverso forme di Acting Out Trasformativo (Khan, 1974), in cui l’azione distruttiva supplisce al lavoro psichico del lutto. Il dolore interno, l’aggressività e la rabbia repressa vengono scaricati all’esterno, trovando nella battaglia ideologica l’unica forma di liberazione e di agency. L’analisi metapsicologica di questo fenomeno si articola attorno al concetto di conversione aggressiva (Freud, 1917). Mentre nella melanconia l’aggressività diretta all’oggetto perduto viene deviata contro il Sé, la radicalizzazione violenta opera un rovesciamento cruciale: l’aggressività auto-diretta viene finalmente convertita in attacco all’esterno e legittimata come missione morale e riparativa. In questo meccanismo, il gruppo fornisce non solo un nemico, ma anche il permesso di distruggere, liberando l’individuo dalla responsabilità del proprio dolore e offrendo una via d’uscita alla disperazione. È in questa dinamica che la radicalizzazione perde la sua funzione identitaria e si trasforma in azione distruttiva.

L’Etica dell’Elaborazione e la Comunità

L’analisi dei microprocessi psicologici della radicalizzazione violenta dimostra che la Lotta Pubblica non è semplicemente l’espressione di un dissenso politico o economico, ma il sintomo drammatico e pervasivo di un Lutto Collettivo non elaborato e di una profonda crisi identitaria. L’individuo e il gruppo, incapaci di sostenere il Vuoto di Senso e la frammentazione emotiva generati dalla perdita e dal trauma collettivo (Krystal, 1988), adottano una risposta difensiva rigida: convertire il dolore in aggressione diretta, idealizzando e legittimando la distruttività come missione morale. Tuttavia, è fondamentale riconoscere che il pensiero radicale non coincide con la violenza. La radicalità, se contenuta e riconosciuta dalla comunità, può rappresentare una forma di resistenza etica e una via per trasformare il dolore in memoria, senso e impegno. La radicalizzazione violenta, al contrario, è il fallimento etico e sociale nel provvedere spazi di elaborazione sufficienti, lasciando che la sofferenza si converta in distruttività. La responsabilità della psicologia clinica e di comunità risiede quindi nel riconoscere e promuovere percorsi di elaborazione della perdita che siano alternativi alla polarizzazione e alla violenza. È cruciale reintrodurre la possibilità di mentalizzare il dolore – nominarlo e pensarlo – anziché agirlo. Solo recuperando la capacità di fare lutto, la sofferenza collettiva può essere trasformata in resilienza e coesione, anziché in vendetta e distruzione. L’obiettivo ultimo non è solo prevenire l’azione violenta, ma restituire dignità al dolore, offrendo al pensiero radicale uno spazio di elaborazione e trasformazione — affinché la fine della perdita non diventi l’inizio di una nuova guerra.

Riferimenti bibliografici

Bandura, A. (2002). Selective moral disengagement in the exercise of moral agency. Journal of Moral Education, 31(2).
Bowlby, J. (1980). Attachment and Loss, Vol. 3: Loss, Sadness and Depression. New York: Basic Books. (Ed. it.: Attaccamento e perdita, Vol. 3: La perdita, la tristezza e la depressione. Torino: Bollati Boringhieri, 2001).
Crenshaw, M. (2011). The Causes of Terrorism. London: Routledge.
Freud, S. (1917). Lutto e melanconia. In Opere di Sigmund Freud, vol. 8 (1914-1919). Torino: Bollati Boringhieri.
Freud, S. (1921). Psicologia delle masse e analisi dell’Io. In Opere di Sigmund Freud, vol. 9 (1917-1923). Torino: Bollati Boringhieri.
Khan, M. M. R. (1974). The Privacy of the Self: The Psychoanalytic Intimacies of a Life. London: Hogarth Press and the Institute of Psycho-Analysis.
Klein, M. (1946). Notes on some schizoid mechanisms. International Journal of Psycho-Analysis, 27.
Krystal, H. (1988). Integration and Self-Healing: Affect-Trauma-Alexithymia. Hillsdale, NJ: The Analytic Press. (Ed. it.: Affetto, trauma, alessitimia. Trad. di L. Perez. Roma: Magi Edizioni, 2007).
Volkan, V. D. (2004). Blind Trust: Large Groups and Their Leaders in Times of Crisis and Terror. Charlottesville, VA: Pitchstone Publishing.

Condividi su