Non è un’impresa semplice ragionare su alcune condizioni materiali di vita, neppure sulle ricadute che queste hanno sulla salute fisica e mentale. Non lo è dal punto di vista emozionale, e ancor meno è agevole mettere da parte tutte le remore etiche che può comportare anche il solo riportare dei racconti che ti sono stati affidati. Ciononostante, anche il silenzio non è una alternativa scevra di rischio, pur se la speranza che l’essere umano sia veramente capace di apprendere dall’esperienza in questa fase storica appare sempre più flebile, se non utopica. Per molti, la visione di Io Capitano di Matteo Garrone ha costituito una dura esperienza emotiva. Partecipare con i due ragazzi protagonisti di quel viaggio non è certamente indolore. Il film riesce però a mostrare la crudezza di certe situazioni anche in modo delicato e poetico, rendendone la visione dura ma per certi versi tollerabile. Nei racconti reali, tutto ciò ovviamente è molto meno sfumato.
Frammenti di storie nei gruppi di sostegno
Siamo seduti la maggior parte del NBC B n nella nostra stanza/cella e qualche volta andiamo a trovare i ragazzi in quella accanto. Qualcuno si può muovere in città per lavoro, alcuni sono andati la scorsa settimana e non sappiamo quando tornano. Altri non possono muoversi.
Noi siamo spaventate dagli uomini e qui non è un posto sicuro, ci possono prendere con la forza e violentarci quando vogliono.
Molti di noi stanno tutto il giorno senza fare nulla in strada parlando costantemente dei problemi e condividendo preoccupazioni. Noi pensiamo troppo e questo ci fa andare fuori di testa. Siamo scappati per essere liberi e siamo entrati in un altro inferno.
Non abbiamo cibo. A volte non mangiano per tre giorni. No vestiti, no coperte. Qualcuno di noi vuole tornare indietro in Etiopia ma non ci sono più soldi e soprattutto non vogliamo un’altra volta sfidare la morte, siamo in un limbo senza uscita. Mi viene da impazzire.
La violenza è normale, quella sessuale pure, anche io sono stato vittima.
Molti di noi pensano troppo ( thinking too much) da diventare matti. Dio dovrebbe essere qui ad ascoltare i nostri problemi. Siamo immobili senza osservare nessun cambiamento. Per quanto sarà così? Per quanto staremo ìn questa situazione? Questa routine ci sta facendo impazzire, dobbiamo elemosinare per il cibo. Siamo stanchi e impauriti.
Non possiamo difenderci, siamo esposti quotidianamente alla violenza sessuale, anche con le armi, non è facile dirlo, ci vergognamo e lo teniamo per noi, ma fa male, malissimo. Le donne soprattutto e lo sappiamo, lo vediamo.
Abbiamo bisogno di condividerlo con te, perché se non chiediamo supporto rimaniamo traumatizzati.
Stare qui ci crea troppi problemi psicologici. Più rimaniamo qui più problemi psicologici abbiamo, per piacere aiutaci.
Non esiste la libertà, siamo in trappola mentalmente e fisicamente. Spendo il mio tempo pensando troppo, troppo, impazzirò lo so già.
Grazie per il vostro aiuto, in queste circostanze stavo andando fuori di testa.
Se siamo fortunati e mangiamo a pranzo, cominciamo a pensare alla cena.
Volevo nascere in Europa voi non avete problemi, siete felici, avete il passaporto, il denaro, la casa, il cibo. Io non ho più nemmeno la mia vita.
Queste voci sono state ascoltate in un focus group in Yemen, dentro le stanze\celle che ospitano uomini e donne del Tigrey, fuggiti attraverso il golfo di Aden in Yemen. Medici senza frontiere opera da molti anni in questi contesti, organizzando equipe di supporto psicologico. Aggiungere altro sembra un po’ superfluo nel descrivere le condizioni materiali e psichiche di queste donne e di questi uomini, molto spesso giovanissimi. In fuga da una condizione invivibile, per approdare ad un’altra condizione invivibile. Due sono le condizioni prevalenti. La totale insicurezza, il vissuto di impotenza, altrettanto totalizzante. Se pensiamo al lavoro portato avanti da Stephen Porges e i suoi collaboratori sul sistema polivagale e su quanto una condizione di benessere si fondi sul sentimento di sicurezza, possiamo avere una idea molto pallida della portata delle ferite e della sofferenza psicofisica che tali condizioni prolungate in modo indeterminato possono infliggere. E si può anche provare ad immaginare la densità emotiva che abita questi focus group, e il dono reciproco che costituiscono.
Molti anni fa, Frantz Fanon, prima della sua prematura scomparsa, scriveva della sua esperienza clinica in Algeria durante gli anni della guerra di liberazione dal colonialismo francese. Le sue considerazioni sono oggi più che mai preziose guide: “Ma la guerra continua. E avremo da medicare ancora per anni le piaghe molteplici e alle volte indelebili fatte ai nostri popoli dal frangersi dell’onda colonialista”. L’imperialismo che oggi si batte contro un’autentica liberazione degli uomini, abbandona qua e là germi di putredine che dobbiamo implacabilmente scoprire ed estirpare dalle nostre terre e dai nostri cervelli. Affrontiamo qui il problema dei disturbi mentali nati dalla guerra di liberazione nazionale che conduce il popolo algerino. Si troveranno forse inopportuni e stranamente fuori posto in un simile libro questi appunti di psichiatria. Non ci possiamo far nulla. Non è dipeso da noi il fatto che in questa guerra fenomeni psichiatrici, disturbi del comportamento e del pensiero abbiano assunto rilievo negli attori della “pacificazione” o in seno alla popolazione “pacificata”. La verità è che la colonizzazione, nella sua essenza, si presentava già come una delle fonti principali degli ospedali psichiatrici. In diverse pubblicazioni scientifiche abbiamo, dopo il 1954, attirato l’attenzione degli psichiatri francesi e internazionali sulla difficoltà esistente a “guarire” correttamente un colonizzato, vale a dire a renderlo integralmente omogeneo ad un ambiente sociale di tipo coloniale. Poiché è negazione sistematizzata dell’altro, decisione forsennata di rifiutare all’altro ogni attributo d’umanità, il colonialismo costringe il popolo dominato a porsi continuamente la domanda: “Chi sono io in realtà?” Le posizioni difensive nate da questo confronto violento del colonizzato e del sistema coloniale si organizzano in una struttura che svela allora la personalità colonizzata. Per capire questa “sensitività” basta semplicemente studiare, apprezzare il numero e la profondità delle ferite inferte a un colonizzato durante una sola giornata trascorsa in seno al regime coloniale. Occorre ricordare comunque che il popolo colonizzato non è soltanto un popolo dominato. Sotto l’occupazione tedesca i francesi sono rimasti degli uomini. Sotto l’occupazione francese, i tedeschi sono rimasti degli uomini. In Algeria non c’è soltanto la dominazione, ma alla lettera la decisione di non occupare, tutto sommato, se non un suolo. Gli algerini, le donne in haik, i palmeti e i cammelli formano il panorama, lo sfondo naturale della presenza umana francese. La natura ostile, restia, fondamentalmente ribelle è effettivamente rappresentata nelle colonie dalla brousse, le zanzare, gli indigeni, le febbri. La colonizzazione ha buon esito quando tutta la natura indocile viene finalmente domata. Ferrovie attraverso la boscaglia, bonifica delle paludi, inesistenza politica ed economica dell’indigenato sono, in realtà, una sola e medesima cosa. Nel periodo della colonizzazione non contestata dalla lotta armata, quando la somma delle eccitazioni nocive oltrepassa una certa soglia, le posizioni difensive dei colonizzati crollano, e questi ultimi si ritrovano allora, in numero cospicuo, negli ospedali psichiatrici. C’è dunque, in questo periodo calmo di colonizzazione riuscita, una regolare e cospicua patologia mentale prodotta direttamente dall’ oppressione.” In questo frammento de I dannati della terra, Fanon fa una serie di affermazioni sulla relazione tra malattia mentale e contesto di una certa rilevanza, su cui forse non tutti abbiamo riflettuto abbastanza. Verrebbe da dire meno che mai in un periodo come quello contemporaneo in cui il paradigma organicista sembra essere diventato predominante. Tali affermazioni di principio sono nelle pagine seguenti del libro esplicate ulteriormente attraverso cinque situazioni cliniche, più una serie di altre situazioni che vengono da Fanon collegate non tanto a specifici episodi, piuttosto alla atmosfera relazionale vissuta nel contesto della guerra coloniale. La nostra capacità clinica di collegare e sistematizzare gli eventi psicopatologici individuali con le atmosfere collettive non è del tutto sufficientemente sviluppata ancora. E non è un deficit da poco per provare a comprendere e dialogare con efficacia con il disagio soggettivo. Le categorie diagnostiche non hanno ancora un linguaggio che possa includere efficacemente del tutto la relazione tra contesto materiale e disagio personale. Anche il disturbo post traumatico da stress non è sempre del tutto adeguato come categoria per rendere parlabile e pensabile il disagio esistenziale che diventa mentale. Il contesto abitato dai partecipanti al focus group di cui si sono riportati quei frammenti di intervento, che tipo di ferite infligge sui corpi e sull’essere nella sua propria integrità? Ma andiamo avanti con ulteriori frammenti, questa volta da un focus group tenutosi in un campo, una prigione a cielo aperto, in Siria.
Nel campo si passa la giornata a sbattersi per avere un po’ d’acqua e cucinare del cibo. Alcune donne passano il tempo insegnando ai bambini l’alfabeto. La scuola non c’è più da quando il covid ha imperversato. Non c’è nessun intrattenimento per i bambini, sono abbandonati a se stessi. Non puoi tenerli tutto il giorno dentro la tenda a 50 gradi. Stanno in giro imbattendosi in tanti rIschi. Diventano però sempre più aggressivi e frustrati, passando il tempo a tirarsi le pietre.
Gli adolescenti passano il tempo sui cellulari introdotti da smugglers senza nessun interesse per la vita reale. Doppia frustrazione per loro. Vedere il mondo fuori senza poterlo veramente vivere. La vita è troppo complicata qui. Siamo senza speranza. Disperazione.
Noi donne dobbiamo chiedere il permesso agli uomini per potere andare in ospedale. Mio marito mi ha detto preferisco che muori piuttosto che andare in ospedale dove può visitarti un dottore uomo. Se mio marito non c’è devo chiedere il permesso a mia suocera. Sono in prigione due volte.
Le persone sono sempre più nervose e frustrate dentro il campo. Ho visto due ragazzi perdere completamente la ragione e uccidersi, uno dietro l’altro.
Se litighi con il vicino di tenda è comune ritrovarti con la tenda bruciata il giorno dopo.
Giovani ragazzi/e vendono il loro corpo per un gelato. Non riusciamo più a gestire la situazione. Sono devastata, vorrei togliermi la vita ma ho troppi figli per abbandonarli in questo mondo.
L’altro giorno la figlia della mia vicina di tenda, 12 anni, è scomparsa. Un uomo l’ha riportata il giorno dopo dicendo che l’aveva violentata e che adesso doveva essere sua per evitare la vergogna. Voglio andare via da questo campo ma è impossibile non ci sono speranze.
La testa ha smesso di funzionare non ho più voglia di avere una vita, mi sento una bestia.
Sembra abbastanza evidente che per le persone costrette in questo campo, il vissuto prevalente sia legato all’impotenza, in modo ancora più intenso che quello riferito dai partecipanti del primo gruppo. In qualche modo, per le persone in Yemen resta pur sempre un orizzonte possibile di cambiamento, di poter proseguire il viaggio verso contesti più tollerabili, meno abusanti. Orizzonte difficile da raggiungere, soprattutto legato alle condizioni economiche, certo, ma che almeno in potenza esiste. In Siria sembra invece sparito l’orizzonte stesso, come emerge crudamente dalle parole pronunciate senza mediazione alcuna. Restano soltanto rabbia distruttiva e disperazione, come facilmente comprensibile. Più sullo sfondo i vissuti apprensivi, invece prevalenti nei partecipanti al primo gruppo, probabilmente perché la catastrofe totale è già accaduta.
Molte domande si aprono a partire da questi frammenti di storie, di discorso. Le fondamentali ovviamente esulano dalle finalità del presente scritto, in un certo senso, poiché riguardano la genesi stessa di queste realtà di abusi strutturali. I confini tra i fenomeni migratori sono molto più sfumati di quanto certa propaganda voglia fare credere per i propri interessi elettorali. Profughi, migranti economici, persone in fuga da repressione o guerre, sono categorie arbitrarie. In ogni caso, la realtà è che entrare in un modo o nell’altro nei percorsi migratori vuol dire fare esperienza di un nuovo tipo di istituzione totale, per di più sparsa per territori globali. Un’istituzione creata da un coacervo di norme e leggi sostanzialmente ostile a priori. E sugli effetti di queste istituzioni totali diffuse c’è ancora molto da capire. Altre domande invece vertono su come pensare di intervenire per offrire un ascolto terapeutico che possa essere in qualche modo efficace. L’intervento di MSF è soprattutto finalizzato alla creazione di teams di consulenza competente all’ascolto dei problemi più pressanti, ascolto che può svolgersi in tipologie di setting diversi, individuale, di gruppo o familiare, secondo le possibilità e le opportunità. Il modello prevalente, secondo le nostre categorie, è quello di una psicoterapia breve, una decina di sedute, centrate sul qui e ora, per implementare risorse che aiutino a intravedere spiragli di cambiamento possibile. Per i pazienti a maggiore connotazione psichiatrica, è previsto un costante follow up, coincidente anche con la terapia farmacologica. Naturalmente queste situazioni limite costringono tutti a tirare fuori il massimo delle personali risorse possibili, e per una volta il termine resilienza non è usato impropriamente. Certamente la funzione primaria terapeutica attivata è quella di costituire un possibile ancoraggio rispetto al vissuto orribile di essere totalmente in balia degli eventi e dell’esistenza. Molte di queste ferite possono risanarsi al mutare del contesto. Quello che presumibilmente resta difficile da elaborare è il sentimento di vergogna, per la ricaduta che ha nel rapporto con se stessi, sulla personale immagine, sul proprio senso di identità. L’essere umano spesso si bea delle proprie conquiste, delle conoscenze acquisite, della propria scienza. Ma è uno specchio fallace. Il più delle volte il nostro è un agire senza scienza e senza coscienza, con qualche eccezione. Quello a cui fa riferimento Fanon nelle sue righe a proposito dell’essenza della realtà coloniale, è il processo di cosificazione dell’altro. L’esperienza di essere cosa è una cosa che fa male, fa malissimo, e difficilmente smette di dolere. Ed è purtroppo un’esperienza molto più diffusa ancor oggi di quanto ci piaccia credere nelle nostre rappresentazioni post illuministiche. L’essere cosa è esperienza densa di vergogna, perché in modo subdolo insinua la credenza sub conscia che se ciò accade è perché in qualche modo oscuro tutto ciò lo si è meritato. Che era poi il vissuto raccolto durante l’esperienza di ricerca sul campo con le meninas e i meninos de rua in Brasile alcuni decenni addietro. Sono nada, sono nulla. Sottinteso, è per questo che tutto ciò accade. Di questo è più difficile, lungo e faticoso prendersi cura, da sé e con gli altri.